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Channel: ville abbandonate – Sardegna Abbandonata
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La Casa della Contessa

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Costa Rei, Casa della Contessa

Costa Rei, comune di Muravera, uno dei tratti di costa più belli della Sardegna sud-orientale. Qui, su un promontorio, si affaccia sulla costa una vecchia villa abbandonata, considerata la prima abitazione costruita in Costa Rei e nota da tutti come “la Casa della Contessa”. Da decenni è in stato di abbandono: la vegetazione è penetrata ovunque, molti muri sono stati buttati giù (o crollati) e ricoperti di scritte e murales. L’atmosfera è assolutamente decadente, ma come capita spesso nelle case abbandonate, le scritte lasciate negli anni dai giovani dal posto o dai visitatori occasionali diventano una sorta di “diario” di più generazioni. C’è un po’ di tutto, dagli anni 80 ad oggi, dalla data della morte di Kurt Cobain alle vittorie calcistiche, oltre a vari insulti, frasi goliardiche e via dicendo.

La villa in passato doveva essere molto bella: si possono vedere ancora oggi la piscina, il porticato con le colonne e la veranda che dà sul paesaggio della costa. Su chi fosse la “Contessa” non ci sono informazioni certe. Le leggende del posto dicono che fosse una donna del nord Italia, molto ricca, che, in seguito alla morte del figlio (secondo alcune versioni della storia affogato proprio in quella piscina; secondo altre morto in un incidente stradale), disperata lasciò la Sardegna, abbandonando la sua bellissima villa.

COME ARRIVARE: Costa Rei è nel comune di Muravera, Sardegna sud-orientale. La villa si trova nel punto più alto del promontorio che sovrasta la costa. Il suggerimento è di chiedere indicazioni sul posto o seguire il percorso su Google Maps.

Foto Casa della Contessa di Costa Rei

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Villa Eleonora

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Ex orfanotrofio, ma nell’Ottocento era una delle più belle ville della Sardegna

Villa Eleonora, Oristano
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Per la maggior parte degli oristanesi Vandalino Casu è solo il nome di una via. Di lui, a parte i dati anagrafici (nato nel 1821, morto nel 1894), si sa poco ed è ricordato principalmente per un motivo: per aver lasciato i suoi terreni e la sua casa perché venissero utilizzati per un istituto di mendicità, là dove oggi è in attività la Casa di riposo “Eleonora d’Arborea”. Ma a pochi passi dall’istituto svetta un grosso edificio diroccato alto tre piani e sconosciuto ai più in quanto praticamente invisibile. Si intravede dal treno, nascosto tra la vegetazione, mentre si entra nella stazione di Oristano. Si tratta di Villa Eleonora, la dimora di Vandalino Casu, oggi dimenticata così come il suo proprietario. Ne è rimasta memoria tra alcuni anziani di Oristano, che ricordano di averla visitata da bambini quando era abbandonata (e – secondo i racconti popolari – infestata dai fantasmi) e da chi in questo edificio venne accolto durante l’infanzia quando Villa Eleonora diventò un orfanotrofio.

E’ costituita da un piano terra, da un primo piano e da una terrazza dove successivamente è stato aggiunto un ulteriore piano. Probabilmente edificata a metà 800 sulla base di un edificio settecentesco preesistente che Casu trasformò in un vero e proprio palazzo, questa villa immersa nella campagna di Oristano e circondata da orti, vigneti, frutteti e uliveti, era così bella da essere citata dai viaggiatori del tempo. Ispirava perfino sonetti e nel 1876 venne premiata al “concorso dei poderi sardi”. Vicino ai binari (esistenti già all’epoca, ma di treni ne passavano pochi) si può vedere ancora oggi ciò che resta di quello che doveva essere il portale d’ingresso.

Villa Eleonora, interno
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Da lì partiva un viale alberato che, secondo le descrizioni dell’epoca, era costeggiato da statue di terracotta realizzate dallo stesso Vandalino, fra le quali si ricordano quelle di due carabinieri e quella di Garibaldi.

Le statue sono scomparse: ne è sopravvissuta solo una, potremmo dire la più importante, ovvero quella di Eleonora (datata 1881), oggi situata nel giardino della Casa di riposo.

AGGIORNAMENTO: abbiamo trovato due delle statue.

All’interno della villa c’è un po’ di tutto e coesistono mobili di varie epoche: quelli dell’orfanotrofio, aperto dal 1939, ma anche quelli di vari occupanti abusivi che ne hanno fatto la loro dimora dagli anni 70 fino agli anni più recenti. Si possono vedere i piccoli letti dei bambini, delle belle sedie, ma anche vari frigoriferi, televisori e paccottiglia varia. L’ultimo piano, come spesso capita nelle ville abbandonate, è il regno dei volatili.

Ma nonostante il degrado e l’incuria per mancanza di interesse da parte di istituzioni o enti privati, la villa conserva ancora oggi un certo fascino e in alcuni angoli lo splendore di un tempo. Meravigliose le scale di legno, risalenti alla costruzione ottocentesca, il pavimento dell’ingresso e alcune vetrate colorate in quella che un tempo era la cappella. E’ un vero peccato che Villa Eleonora sia stata dimenticata così dalla sua città. Potrebbe essere uno dei monumenti di Oristano ed essere utilizzata per gli scopi più vari, come sottolineato più volte dal prof. Vincenzo Falqui Cao (presidente della Casa di riposo), che ringraziamo per la preziosa collaborazione.

Un luogo abbandonato e dimenticato ma che oggi andrebbe riscoperto e salvato, quantomeno con interventi conservativi che evitino l’ulteriore deterioramento della struttura.

DOVE SI TROVA: tra Oristano e Silì, in via Vandalino Casu, nei terreni privati della Casa di riposo “Eleonora d’Arborea”. L’accesso è vietato. Google Maps.

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Ecco un’immagine con la statua di Eleonora realizzata da Vandalino Casu circondata dai busti di terracotta (grazie a O.Ponti)

Villa Mugoni

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Una tenuta abbandonata immersa nel verde a pochi passi dal mare

Villa Mugoni, Alghero

Mugoni è il nome di una delle spiagge più belle della zona di Alghero, nella baia di Porto Conte. Sabbia bianca, acqua cristallina, solite cose. Ma il nome di questo spiaggia deriva dalla famiglia in passato proprietaria di una bellissima villa e azienda agricola i cui resti sono oggi nascosti tra gli alti pini a pochi passi dal mare. L’azienda era nota per la produzione di vino e cotone.

Sebbene nel corso dei decenni abbia subito vari crolli e attacchi vandalici (le immancabili svastiche, proprio sulla facciata più bella della casa) Villa Mugoni colpisce ancora oggi per la sua bellezza e le sue dimensioni. Gli ampi spazi, la terrazza, le cantine, le linee liberty, le finestre ad arco e i bei pavimenti danno un’idea di quello che un tempo doveva essere l’aspetto di questa maestosa villa. A pochi metri sono presenti altre costruzioni: le scuderie e i magazzini dell’azienda, ormai del tutto coperti da un intricato groviglio di rovi e arbusti.  In tempi recenti è stato presentato un contestato piano di riconversione strutturale dell’area che prevederebbe la costruzione di un grande albergo di lusso al posto di quella che un tempo era la tenuta della famiglia Mugoni.

DOVE SI TROVA: nella baia di Porto Conte, all’interno della pineta Mugoni, a cui si accede dall’omonima spiaggia. Google Maps.

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Villa Pietri

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Un tesoro nascosto nelle campagne di Ozieri, da antica dimora di campagna a sede della miniera di Su Elzu

Villa Pietri, Ozieri
Villa Pietri, Ozieri

La villa Pietri è stata costruita probabilmente nei primi decenni del ‘900 dalla famiglia Pietri, una casata nobiliare ozierese, alcuni dei cui membri erano medici, politici e avvocati. Un ceppo commemorativo – situato sul perimetro est della tenuta, sul piazzale antistante la chiesetta campestre di S.Stefano, anch’essa abbandonata e in attesa di un piano di recupero – ricorda un componente della famiglia, l’avvocato Stefano Pietri Carossini, realizzato nel 1934, nel decennale della sua scomparsa.

Utilizzata dapprima come abitazione, successivamente è stata acquisita da una delle società estrattive attive nella zona, diventando la sede amministrativa della miniera di Su Elzu (o Suelzu), distante poche centinaia di metri. Una volta conclusa l’attività, con la chiusura della miniera avvenuta nel 1957, l’edificio è stata abbandonato a un lento oblio, fino ad arrivare ai giorni nostri, nascosto parzialmente dalla vegetazione.

Abbandonata da oltre 50 anni, la villa Pietri mantiene intatto il suo innegabile fascino. Situata a poche decine di metri dalla strada Ozieri-Pattada, di fronte alla vecchia stazione ferroviaria di Vigne (sulla tratta dismessa di Chilivani-Tirso), vi si accedeva attraverso un caratteristico cancello che si affaccia direttamente sulla carreggiata. Praticamente invisibile dalle auto, è circondata da un’ampia tenuta in mezzo alla quale emergono alcuni particolari che ci riportano idealmente all’antico splendore, tra cui una vasca ornamentale quasi ai piedi della casa e una piccola fonte-abbeveratoio a pochi metri di distanza.

La struttura è quella di una lussuosa villa a due piani, di stile neoclassico, che la fa vagamente somigliare a un tempio greco. La facciata presenta infatti un portico colonnato ornato da fregi e decorazioni e sopra di esso vi è un piccolo terrazzo. L’interno è parzialmente murato e alcune stanze sono inagibili a causa del crollo del soffitto in legno, che tuttavia è ancora presente in una delle stanze e nel corridoio superiore che conduce al terrazzo. Ben pochi oggetti si sono conservati: una vecchia cucina, diverse bottiglie ancora sistemate in una cantina, una sedia e una cassa di vini della “cantina sociale del Mandrolisai”.

Foto

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DOVE SI TROVA: Da Ozieri percorrere la SS 128b in direzione di Pattada per circa 2 Km, fino a uno spiazzo sulla sinistra antistante la chiesetta di S.Stefano. Google Maps.

Com’era

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(foto tratte da  “Saluti da Ozieri” di Gianfranco Saturno, Il Torchietto Editore, 1993)

Altre ville abbandonate in Sardegna:

Diga Coghinas, casa del capo centrale

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Un testimone silenzioso di quasi un secolo di storia del Coghinas

La casa del capo centrale della diga del Coghinas
La casa del capo centrale, diga del Coghinas
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Nel solitario e selvaggio scenario della stretta del Muzzone, alle pendici del massiccio del monte Limbara, si erge la diga e centrale idroelettrica del Coghinas, che con i suoi 185 metri di larghezza e 54 di altezza rappresenta una delle più audaci opere di ingegneria della Sardegna del primo ‘900. Costruita tra il 1924 e il 1926 per conto della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso, sotto la direzione degli ingegneri Angelo Omodeo e Luigi Kambo, venne inaugurata ufficialmente un anno più tardi, nel 1927. L’imponente sbarramento, che dà origine al lago Coghinas, è realizzato in calcestruzzo, pietra e muratura.

L’impianto idroelettrico era formato inizialmente da quattro turbine sotterranee “in caverna”, situate a valle della diga a quaranta metri sotto il letto del fiume. Nei primi anni di attività l’energia elettrica e l’ammoniaca prodotte venivano in parte impiegate per l’alimentazione delle fabbriche della Sarda Ammonia di Oschiri.

Quasi novant’anni dopo, il panorama è notevomente cambiato: i sogni e le speranze dell’epoca si sono dovuti confrontare con la crisi dell’industria sarda. La centrale idroelettrica è ancora attiva ma ha perso parte del suo antico prestigio, la Sarda Ammonia ha chiuso i battenti ormai da diversi decenni e anche il vicino villaggio Enel è stato abbandonato.

Un silenzioso testimone di questi cambiamenti è la villa che ospitava il direttore dell’impianto, costruita in contemporanea con la diga e oggi abbandonata, dopo essere stata usata probabilmente come magazzino. La casa, in stile Liberty tipico dell’epoca, si erge sulla sponda orientale della gola e domina dall’alto la centrale e la parte finale dell’invaso, quasi a contemplarli ancora oggi orgogliosamente. Strutturata su tre piani, l’interno è pericolante e i piani superiori sono difficilmente accessibili. Ben poco è rimasto al suo interno, anche se si possono ancora osservare alcune particolari decorazioni che ci riportano idealmente all’epoca della costruzione. Al di sotto del livello stradale vi è un ulteriore sottopiano, adibito a deposito di macchinari, due dei quali sono oggi visibili.

Ma la casa del capo centrale non è il solo testimone della storia industriale del Coghinas. A pochi passi dalla casa del capocentrale, anche se invisibile, c’è il villino che ospitò la famiglia del direttore della Sarda Ammonia.

Foto

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DOVE SI TROVA: subito dopo la centrale Enel del Coghinas. L’edificio è pericolante e l’accesso è vietato. Google Maps.

Villino del Coghinas

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Un misterioso villino nascosto tra i rovi racconta la storia dell’industria chimica sarda

Stretta del Muzzone, lago del Coghinas
Villino sulla Stretta del Muzzone, lago del Coghinas
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Ottant’anni dividono le foto in bianco e nero da quelle a colori pubblicate qui sotto. Ma per capire perché sulla diga del Coghinas si trovi questa costruzione così particolare bisogna prima fare qualche passo indietro.

Nella seconda metà degli anni ’20, con la costruzione dello sbarramento sul lago Coghinas, si venne ad avere un quantitativo di energia elettrica superiore al fabbisogno di una terra così poco industrializzata come era la Sardegna. Pertanto venne l’idea di realizzare concimi chimici di cui aveva gran bisogno l’isola, e magari esportarne l’eccesso nella Penisola.

Il progetto era ambizioso: produrre l’ammoniaca in un apposito stabilimento nel Coghinas, per poi pomparla ad Oschiri dove, in prossimità della stazione ferroviaria, vi sarebbe stato un secondo stabilimento in cui sarebbe avvenuta la produzione vera e propria del concime dopo aver trattato l’ammoniaca. Il cuore di tutto il processo stava proprio in quest’ultimo composto, il cui ottenimento avveniva mediante un innovativo processo brevettato dall’ing. Giacomo Fauser , processo che, data la sua gioventù, necessitava di messa a punto ed ottimizzazione per superare gli inconvenienti tecnici e per fare in modo che la sua resa fosse conveniente su scala industriale

A dirigere lo stabilimento fu chiamato il dott. Guglielmo Fadda, laureato in Chimica all’Università di Cagliari. Egli arrivò al Coghinas, alla fine degli anni 20 avendo un bagaglio di esperienze ancora ridotto, ma nonostante tutto riuscì a risolvere brillantemente una grossa mole di problemi e a tenere abbondantemente testa a due validissimi tecnici come il già citato ing. Fauser e Il dott. Giulio Natta che più tardi diventerà premio Nobel per la chimica. Anzi: proprio quest’ultimo venne spesso al Coghinas per seguire l’evoluzione di quella che era una realtà di primo piano nell’industria chimica italiana, ma che purtroppo scomparve all’alba degli anni ’60.

villino-coghinas2La prima abitazione a cui venne destinato il dott. Guglielmo Fadda fu proprio il villino di cui ci occupiamo.

Sono passati ottant’anni e il villino è ancora in piedi, sebbene ormai quasi irraggiungibile, nascosto dai rovi e praticamente invisibile. Addirittura si pensava non esistesse più, demolito dalla stessa azione del tempo. A quanto è dato sapere la famiglia soggiornava nella costruzione senza avere la possibilità di usare la corrente elettrica per una stufa, nonostante il freddo consistente e la presenza della centrale a pochi passi che garantiva elettricità gratuita e illimitata.

Non si sa a chi si debba ascrivere la costruzione del villino: forse ad Amerigo Boggio Viola, straordinario impresario biellese che costruì la maggior parte dei fabbricati presenti al Coghinas, piegando alla sua volontà gli aspri versanti rocciosi di questa stupenda zona dell’ Oschirese. Comunque è interessante notare la tecnica costruttiva che prevedeva, a partire dall’esterno, una guaina bituminosa pitturata di bianco (sulla quale sono state applicate delle decorazioni lignee) e un assito di tavole verticali che copre la parete muraria interna.

Rispetto alle foto originarie si nota la presenza di un muro di sostegno retrostante e di una balconata in cemento armato che ha sostituito quella originale in legno. L’intera costruzione è ormai scomparsa tra rami e radici che l’avvolgono e la soffocano come dei serpenti, ma allo stesso tempo sembrano proteggerla come un sarcofago di edera e rovi. Il posto è decisamente troppo difficile da raggiungere per essere colpito dal vandalismo. All’interno si scorgono segni di vita quotidiana del passato: bottiglie di medicinali, letti pieghevoli e, ironia della sorte, sacchi di diserbante della Shell, di quello che veniva usato proprio per combattere le piante infestanti.


(ringraziamo per la collaborazione Antonello Orani)

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DOVE SI TROVA: di fronte all’ultima costruzione – la casa del capocentrale – subito dopo la diga, guardando verso il versante roccioso sovrastante.La struttura è molto difficile da raggiungere e in condizioni statiche assai precarie. Google Maps.

Villaggio Normann

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Ex villaggio minerario, oggi è ancora abitato, ma i bellissimi edifici abbandonati sono popolati soprattutto da scritte e sfoghi di ogni genere

Villaggio Normann, Gonnesa
Villaggio Normann, Gonnesa

Si trova in uno degli angoli più suggestivi del Sulcis-Iglesiente, sul costone del monte di S.Giovanni, tra pini, palme e macchia mediterranea e il mare a portata di sguardo. E’ Normann, con due enne, minuscola frazione di Gonnesa ed ex villaggio minerario. Qui abitavano i dipendenti della vicina miniera di San Giovanni, un’antica miniera già conosciuta addirittura in epoca romana, dove dal 1867 in poi si iniziò a scavare una vena argentifera. La miniera rimase in attività, tra alti e bassi, fino agli anni 80 del Novecento, quando venne definitivamente abbandonata. A Normann oggi abitano una settantina di persone. Case nuove e molto curate si mescolano ai ruderi che ricordano il passato minerario, un po’ come a Montevecchio o all’Argentiera. Gli edifici interessanti sono soprattutto quattro: la villa Stefani, la villa Pintus, il rudere della chiesa di S.Giovanni all’entrata del paese e lo spaccio aziendale. In particolare nella villa Pintus, quella che sembrerebbe la più recente delle costruzioni abbandonate, hanno trovato spazio sfoghi giovanili e pulsioni infantili e trasgressive di ogni genere, come dimostrano le numerose scritte sui muri. Si va dagli inni a Mussolini, al KKK, a Satana, a Gesù, perfino alla brigate rosse (con una doppia di troppo: “brigatte rosse”), oltre ad insulti personali, poesie, le solite svastiche disegnate male, disegni osceni e disperati appelli all’amore libero. E’ interessante notare come in questi luoghi isolati e abbandonati, a pochi passi dalla civiltà ma comunque al riparo da sguardi indiscreti, il cuore dei giovani del luogo si lasci andare ad ogni genere di espressione, apparentemente senza filtro, in queste stanze che fungono da sfogatoio, dove il confine tra lo scatologico e l’escatologico si fa labile.

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DOVE SI TROVA: nel sud della Sardegna, nel comune di Gonnesa, dopo la miniera di San Giovanni. Superata Bindua seguire le indicazioni per “Normann”. Google Maps.

Villa Webber

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Una strana villa che sembra un castello, in cima all’isola de La Maddalena. Apparteneva a un ricco inglese, ma qui nel 1943 fu nascosto il prigioniero Benito Mussolini.

Villa Webber, La Maddalena
Villa Webber, La Maddalena
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C’è chi definì il fascismo un regime da operetta. Un paragone assolutamente ingiusto e irriverente: l’operetta è stata uno dei più grandi generi musicali e teatrali degli ultimi secoli, nel quale anche l’Italia ha avuto le sue eccellenze come il napoletano Carlo Lombardo, autore di Cin Cin La e Scugnizza. Ma prendendo per buono questo paragone, non c’è dubbio che villa Webber fu una delle scenografie adatte al penultimo atto della dittatura di Mussolini.

A vederla oggi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di falso, come se dietro non ci sia nulla, solo un’improbabile facciata di cartapesta. Ma dopo aver attraversato il bellissimo parco di pini in cui è immersa, dopo aver superato i diversi muri perimetrali che la circondano e aver varcato la porta d’ingresso, si capisce che non ci si trova sul palco di un’operetta: villa Webber esiste davvero. Ed esiste da più di un secolo.

Costruita a fine 800 a La Maddalena, su un promontorio in località Padule, deve il nome al suo primo proprietario, l’inglese James Phillipps Webber. Un personaggio misterioso che fece costruire la villa in un raffinato e oggi un po’ improbabile stile moresco-italiano. Webber visse a La Maddalena per 25 anni, fino alla sua morte. Di lui si disse un po’ di tutto, anche che fosse una spia al servizio di sua maestà la regina. Di certo sappiamo che era un ricco commerciante, amante dell’arte e della cultura, che non si sposò e che morì a Pisa, mentre era in viaggio, all’età di 80 anni. All’interno della villa si trovavano mobili e soprammobili preziosi, dipinti d’autore e una grande collezione di libri (che, si dice, Webber spolverava di persona, non fidandosi dei domestici) e altre antichità che il proprietario mostrava orgoglioso ai suoi ospiti.

La villa fu abitata fino al 1928, poi parte degli arredi furono messi all’asta, finché nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra, venne requisita dallo Stato Regio Italiano. Perché? Per diventare provvisoriamente una prigione per uno dei protagonisti di quella terribile guerra. E’ proprio qui infatti che l’autoproclamatosi Duce Benito Mussolini venne nascosto dal 7 al 27 agosto 1943 (pare nelle due belle stanze a levante, con splendida vista mare) prima di essere trasferito sul Gran Sasso, dove tenterà di suicidarsi tagliandosi le vene, per poi essere liberato dai tedeschi. Ma questa è un’altra storia.

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Scale, villa Webber

La storia della villa prosegue anche dopo la permanenza di Mussolini. Una volta abbandonata dalle milizie italiane e dagli 80 carabinieri che circondavano il parco, la villa inizia il suo declino: viene rubato tutto ciò che si può rubare, fino ad essere svuotata. E’ probabile che successivamente sia stata usata per altri scopi, ma l’impressione è che venga lasciata andare a un lento e inesorabile oblio.

Oggi le grandi stanze vuote, gli splendidi pavimenti e i soffitti affrescati, riescono a trasmettere solo una vaga idea del passato splendore. Intorno alla villa si trovano i ruderi di altre costruzioni, probabilmente le abitazioni della servitù, magazzini e stalle.

Sui muri poche scritte, quasi nessuna recente, come se il mondo a villa Webber si fosse fermato qualche decennio fa. Eppure quelle pareti hanno sicuramente corso un rischio: quello di diventare testimoni di un pellegrinaggio di nostalgici del fascismo. Cosa che – se si esclude un solo simbolo neofascista, comunque in compagnia di altri simboli più o meno politici – a quanto pare non è successa, o almeno non ne hanno lasciato traccia.

Tracce che invece hanno lasciato i cinghiali, gli unici oggi a frequentare la villa assieme ai bellissimi gatti della vicina colonia felina e ai maddalenini che hanno voglia di fare una passeggiata in uno degli angoli più suggestivi e meno conosciuti della loro isola.

DOVE SI TROVA: a La Maddalena, in località Padule. Precisiamo che si trova in un terreno privato e l’accesso è vietato. Google Maps.

Ecco la villa in una foto d’epoca, probabilmente una sorta di cartolina commemorativa:

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La Cupola

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La Cupola, uno strano angolo di Paradiso, realizzato dal vulcanico architetto Dante Bini e in passato appartenuto a Michelangelo Antonioni

Cupola realizzata da Dante Bini. Si trova in una proprietà privata e ogni accesso è vietato.
Cupola realizzata da Dante Bini. Si trova in una proprietà privata e ogni accesso è vietato.

Siamo in Costa Paradiso, nel versante della Gallura meno noto che guarda a occidente. Un enorme villaggio turistico esteso per chilometri, simbolo del turismo d’élite ma anche di speculazione edilizia e stravolgimento del paesaggio. Le costruzioni paiono soffrire questa accusa, e si mimetizzano, sembrano scogli sulla terra: tanto verde, pietra e colori locali, strade che seguono il pendio, un traffico ordinato e tranquillo. Tutto sorvegliato e organizzato anche durante l’inverno, con la manutenzione che non si ferma mai.

Ma qualcosa non si mimetizza affatto. All’estremo settentrionale dell’insediamento, al termine di un dedalo di vie con davanti solo la macchia e il golfo dell’Asinara, due oggetti non identificati spiccano nel contesto, dalla strada come dal satellite. Due cupole di cemento che ricordano un’esposizione internazionale o una metropoli futuristica, ma sono atterrate in un villaggio turistico mediterraneo. A vederle così grigie, trascurate e vuote, si pensa subito a un ecomostro, persino a un abuso, qualcuno invocherebbe le ruspe magari davanti alle telecamere. E allora come mai quest’opera dimenticata è ancora studiata nelle università di tutta Europa, e persino i giornali stranieri ne denunciano la rovina?

Perché la grande villa era dell’acclamato regista ferrarese Michelangelo Antonioni. E non ha mai cercato di nascondersi, perché rappresentava il progresso e fu costruita, per impressionare e conquistare la sua compagna Monica Vitti, dal vulcanico Dante Bini, giustamente noto come l’architetto delle bocce o l’architetto delle piramidi.

Si tratta di una tecnica costruttiva estremamente innovativa per l’epoca dei ruggenti anni sessanta, e ancora in uso: il Binishell. Questa cupola, come la sorella più piccola costruita affianco, è sorta in brevissimo tempo grazie a un’unica gettata di cemento armato, letteralmente gonfiata e sollevata dalla pressione dell’aria al suo interno. Quando il cemento si solidifica, si bucano le pareti ritagliando le aperture desiderate, e il più è fatto, quasi sempre senza rischi. Per la Costa Paradiso furono anni di jet-set: pittori, artisti ed editori, ma soprattuto attori e registi. Dal film del ‘64 dello stesso Antonioni, il Deserto Rosso girato nella vicina Budelli che gli fece scoprire l’impresario e proprietario, a Black Stallion prodotto nel ‘79 da Francis Ford Coppola. Dalla villa due sentieri ricavati nella roccia conducono al mare e a un piccolo stagno, conche e torrenti, addirittura un piccolo fiordo e un’isoletta, segno di una natura ancora stupenda anche se calpestata, specie nel passato.

Ma le relazioni finiscono, nel mondo dello spettacolo spesso bruscamente: ex e amanti rimasero ancora per alcuni anni in Costa Paradiso vivendo nelle case vicine, poi partirono tutti. La villa-cupola ovoidale, casa a uovo o cupola di Antonioni fra i tanti nomi che ha ricevuto, passò di mano in mano e lentamente iniziò il suo declino. Lentamente gli infissi si scheggiano e spezzano, i ferri del cemento armato si scoprono, le piante crescono floride, dal ruvido intonaco sbuca la pelle aliena.

Oggi la villa ha dei proprietari ed è vietato entrare al suo interno, ma solo ammirarla da fuori nel rispetto della privacy e della proprietà privata.

Dove si trova: nord della Sardegna, più precisamente Costa Paradiso, sul mare. Non si può visitare: si trova in una proprietà privata e sconsigliamo assolutamente ogni trasgressione. Google maps.

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Villa e Azienda Stangoni

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Una villa e un’azienda abbandonate da oltre 35 anni, resti della storia di una famiglia di imprenditori

Il Coghinas si conferma l’alfa e omega dell’abbandono sardo: acque poco frequentate, che dalle sorgenti alla foce segnano le memorie di un pionieristico passato ingiustamente dimenticato.

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Villa e Azienda Stangoni. VAI ALLE FOTO

Siamo nel centro di Valledoria, nella frazione capoluogo di Codaruina. Poco lontano dall’estuario si nascondono qui in Anglona i resti delle fabbriche che per un secolo hanno portato fortuna e celebrità alla famiglia Stangoni. Furono una casata di brillanti imprenditori di origini corse provenienti da Aggius, che nel 1880 si stabilirono nella bassa valle del Coghinas dopo avervi individuato un possibile terreno di sviluppo, dove il suocero anni prima aveva costruito una cascina alle porte del paese.

Il giovane capo-famiglia, Pier Felice, professore di Diritto e Legislazione rurale, riuscì coraggiosamente a intravedere delle potenzialità di sviluppo in questa zona da sempre paludosa, malarica e soggetta a frequenti alluvioni. Acquistò quindi numerosi ettari di terreno agricolo e vi ampliò la cascina già presente.

La sua parabola si concluse tragicamente il giorno di Ferragosto del 1904: mentre tornava dalla spiaggia fu ucciso davanti ai suoi due figli Arnaldo e Alberto Mario, forse per rivalità da altri possidenti.

Ma gli orfani dell’imprenditore non si persero d’animo: dopo aver trascorso l’infanzia in un collegio fiorentino e conosciuto le atrocità del primo conflitto mondiale, tornarono a Valledoria nel 1920. Qui ripresero in mano l’attività paterna potenziando le mansioni agricole e avviando estesi lavori di bonifica.

DSC_3338Il paese crebbe spinto dalle opportunità di lavoro per la popolazione dei dintorni, passando in pochi decenni dalla ventina di abitanti iniziali ad alcune centinaia. Grazie ai finanziamenti di un’industria toscana del tabacco ora in stretta alleanza, e al coinvolgimento di un architetto belga, vicino alla cascina vennero erette una sontuosa villa liberty e la chiesetta di san Giuseppe, facente parte del terreno padronale.

Giunse il secondo dopoguerra, periodo di massima attività dei fratelli Stangoni, che ormai controllavano un piccolo impero economico fondato sulla manifattura del tabacco e soprattutto sulla produzione industriale di carciofi, pomodori e grano, di cui erano i principali coltivatori dell’Anglona. In particolare, nel 1946 venne costruita all’altro capo del paese la “fabbrica Stangoni”, concepita per l’inscatolamento di pomodori pelati. Quattro anni più tardi nacque il Consorzio di Bonifica della Bassa Valle del Coghinas, il cui cuore era proprio la “Azienda agricola F.lli Stangoni – Codaruina”, che ormai commerciava in tutta l’isola e riceveva continue visite di consulenti della penisola, fortemente interessati al dinamico aspetto gestionale.

DSC_3283Contro le aspettative, il seguente boom economico e l’allargarsi del mercato colpirono mortalmente la piccola realtà territoriale e il sogno degli Stangoni, la cui attività produttiva si spense gradualmente. Già negli anni ’60 l’azienda Stangoni chiuse i battenti e venne abbandonata, e nel 1980 la bellissima villa subì la stessa sorte, pochi anni dopo la morte dei fratelli. Alcuni volantini disseminati al suo interno lasciano intendere che, nell’ultimo periodo, l’edificio fu utilizzato a fini turistici come albergo e agriturismo, con tanto di scuola di equitazione e di volo con deltaplani, l’ultimo improbabile colpo di coda prima dell’oblio.

Oggi la villa Stangoni riesce a trasmettere ancora il suo fascino, imponente, inquietante e vagamente spettrale. Ma allo stesso tempo è una bizzarra commistione di stili, con esterni liberty in un cortile da scuderia, alcune stanze con aspetti caratteristici di inizio secolo e altre con motivi e struttura tipicamente anni ‘70.

Davanti a lei solo infinite distese di pungenti carciofi, il nuovo oro verde del Coghinas.

Dove si trova: nord Sardegna, subito fuori da Valledoria, lungo la SP33. Google Maps.

Foto

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Diga Santa Chiara, casa del capocentrale

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Una casa che appare e scompare, uno scrigno di segreti sotto il lago Omodeo

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Casa sommersa, lago Omodeo,
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Il lago Omodeo è uno scrigno che sotto l’acqua nasconde vari tesori: tombe di giganti, domus de janas, un insediamento prenuragico, una foresta tropicale fossile con alberi di 20 milioni di anni, ossa di animali estinti, i resti di un paese ricostruito altrove e anche una casa a due piani che appare e scompare a seconda del livello dell’acqua. Sembra che questo edificio non voglia abbandonare del tutto la superficie, anche se il suo tempo è passato da un pezzo ed è legato alla storia della vecchia diga di Santa Chiara. Che comincia circa un secolo fa.

Nel 1917 iniziano i lavori che porteranno alla realizzazione di quello che per decenni sarà considerato il più grande lago artificiale d’Europa. La progettazione è affidata all’ingegnere Angelo Omodeo, colui che darà il nome al lago, e la costruzione all’ing. Giulio Dolcetta. Noi forse avremmo preferito Lago Dolcetta, ma non facciamo polemiche. Comunque nel vicino villaggio di Santa Chiara c’erano sia via Omodeo sia piazza Dolcetta, quindi va bene così.

Lo scopo di questa importante opera era quello di produrre energia elettrica e di sfruttare le acque del fiume Tirso per l’irrigazione del Campidano. Ma prima di iniziare i lavori, c’era un problema da risolvere: Zuri, un piccolo borgo di circa venti case che si trovava a 88 metri sul livello del mare, mentre l’acqua del lago sarebbe arrivata a 105 metri. Fatti due calcoli, Zuri sarebbe annegato. Quindi,  per evitare che Zuri diventasse la piccola Atlantide dell’Omodeo, ancora prima dell’inizio dei lavori ufficiali si procedette alla demolizione dell’abitato.

Ci volle quasi un mese per buttare giù le case (i cui resti, in parte, dovrebbero trovarsi ancora là sotto) per poi ricostruirle in una altura vicina, al sicuro, e qualche anno in più per risolvere un altro problema: la chiesetta romanica del 1291. Per quanto l’idea di una chiesa sommersa sia sempre suggestiva, si decide di smontarla e rimontarla mattone per mattone, un processo che si chiama anastilosi (qui una foto della chiesa prima e dopo), e oggi potete ammirarla all’entrata del piccolo borgo in tutta la sua integrità.

Risolto il problema Zuri, i lavori della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche sul Tirso vanno avanti fino al 1923, e nell’aprile del 1924 ci fu l’inaugurazione ufficiale della diga con tanto di visita del re.

DSCN9083A valle della diga venne costruita la centrale idroelettrica, e grazie ad essa Ulà Tirso fu il primo paese della Sardegna ad avere l’energia elettrica. All’epoca, e per molto tempo, l’Omodeo era il lago artificiale più grande d’Europa, come tutti i bambini sardi, per decenni, hanno imparato a memoria sui libri di scuola.

Ma arrivò per la vecchia diga il momento di andare in pensione: nel 1997 venne inaugurata la nuova diga, più alta e dal bacino più capiente, che comportò un innalzamento del livello dell’acqua. Così la valle venne sommersa e tutto, animali estinti, foresta tropicale, resti di Zuri, sparì per sempre sotto l’acqua. O quasi.  Ogni tanto, quando il livello dell’acqua cala, viene fuori il passato: la foresta pietrificata, qualche nuraghe, pali della luce e anche quella che viene chiamata la casa del capocentrale o da alcuni “casa del custode”.

In realtà in questa casa erano ospitati il capocentrale, il vicecapo e le loro famiglie. Si trova proprio sotto la vecchia diga, di fronte al ponte che la sovrasta. Dall’alto gli automobilisti probabilmente non notano nulla, anche perché per buona parte dell’anno l’edificio è quasi del tutto coperto dall’acqua. Era una bella villa a due piani circondata da un giardino con un laghetto, un frutteto e delle palme.

Sul fronte opposto, più in alto e quindi non scomparsa sotto l’acqua, si trova un altro edificio, oggi decisamente vandalizzato, che in passato ospitava i carabinieri di Ulà Tirso e successivamente i custodi della diga. Dopo l’incidente del Vajont del 1963 le misure dei sicurezza nelle dighe aumentarono. I custodi della diga Santa Chiara facevano 3 turni da 8 ore per coprire l’intera giornata ed effettuare quotidianamente i controlli di sicurezza.

E’ anche per questo che ogni mattina alle 10 in tutte le zone a rischio (praticamente tutto l’oristanese) suonavano le sirene usate in precedenza solo durante la Seconda guerra mondiale: era un test che aveva il significato di “è tutto ok”. Se le sirene avessero suonato in un altro orario avrebbe significato che era successo qualcosa alla diga e che i paesi vicini al Tirso andavano immediatamente evacuati. Sulla storia della diga e del suo inabissamento esiste un bel documentario di Franco Taviani, “Adiosu diga addio”, da non confondersi con il nostro Adiosu.

Dove si trova: lago Omodeo, non lontano da lì c’è anche il villaggio di Santa Chiara, dove vivevano i dipendenti della Società Elettrica Sarda. Google Maps.

Foto

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Villa Eleonora

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Ex orfanotrofio, ma nell’Ottocento era una delle più belle ville della Sardegna

Villa Eleonora, Oristano
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Per la maggior parte degli oristanesi Vandalino Casu è solo il nome di una via. Di lui, a parte i dati anagrafici (nato nel 1821, morto nel 1894), si sa poco ed è ricordato principalmente per un motivo: per aver lasciato i suoi terreni e la sua casa perché venissero utilizzati per un istituto di mendicità, là dove oggi è in attività la Casa di riposo “Eleonora d’Arborea”. Ma a pochi passi dall’istituto svetta un grosso edificio diroccato alto tre piani e sconosciuto ai più in quanto praticamente invisibile. Si intravede dal treno, nascosto tra la vegetazione, mentre si entra nella stazione di Oristano. Si tratta di Villa Eleonora, la dimora di Vandalino Casu, oggi dimenticata così come il suo proprietario. Ne è rimasta memoria tra alcuni anziani di Oristano, che ricordano di averla visitata da bambini quando era abbandonata (e – secondo i racconti popolari – infestata dai fantasmi) e da chi in questo edificio venne accolto durante l’infanzia quando Villa Eleonora diventò un orfanotrofio.

E’ costituita da un piano terra, da un primo piano e da una terrazza dove successivamente è stato aggiunto un ulteriore piano. Probabilmente edificata a metà 800 sulla base di un edificio settecentesco preesistente che Casu trasformò in un vero e proprio palazzo, questa villa immersa nella campagna di Oristano e circondata da orti, vigneti, frutteti e uliveti, era così bella da essere citata dai viaggiatori del tempo. Ispirava perfino sonetti e nel 1876 venne premiata al “concorso dei poderi sardi”. Vicino ai binari (esistenti già all’epoca, ma di treni ne passavano pochi) si può vedere ancora oggi ciò che resta di quello che doveva essere il portale d’ingresso.

Villa Eleonora, interno
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Da lì partiva un viale alberato che, secondo le descrizioni dell’epoca, era costeggiato da statue di terracotta realizzate dallo stesso Vandalino, fra le quali si ricordano quelle di due carabinieri e quella di Garibaldi.

Le statue sono scomparse: ne è sopravvissuta solo una, potremmo dire la più importante, ovvero quella di Eleonora (datata 1881), oggi situata nel giardino della Casa di riposo.

AGGIORNAMENTO: abbiamo trovato due delle statue.

All’interno della villa c’è un po’ di tutto e coesistono mobili di varie epoche: quelli dell’orfanotrofio, aperto dal 1939, ma anche quelli di vari occupanti abusivi che ne hanno fatto la loro dimora dagli anni 70 fino agli anni più recenti. Si possono vedere i piccoli letti dei bambini, delle belle sedie, ma anche vari frigoriferi, televisori e paccottiglia varia. L’ultimo piano, come spesso capita nelle ville abbandonate, è il regno dei volatili.

Ma nonostante il degrado e l’incuria per mancanza di interesse da parte di istituzioni o enti privati, la villa conserva ancora oggi un certo fascino e in alcuni angoli lo splendore di un tempo. Meravigliose le scale di legno, risalenti alla costruzione ottocentesca, il pavimento dell’ingresso e alcune vetrate colorate in quella che un tempo era la cappella. E’ un vero peccato che Villa Eleonora sia stata dimenticata così dalla sua città. Potrebbe essere uno dei monumenti di Oristano ed essere utilizzata per gli scopi più vari, come sottolineato più volte dal prof. Vincenzo Falqui Cao (presidente della Casa di riposo), che ringraziamo per la preziosa collaborazione.

Un luogo abbandonato e dimenticato ma che oggi andrebbe riscoperto e salvato, quantomeno con interventi conservativi che evitino l’ulteriore deterioramento della struttura.

DOVE SI TROVA: tra Oristano e Silì, in via Vandalino Casu, nei terreni privati della Casa di riposo “Eleonora d’Arborea”. L’accesso è vietato. Google Maps.

Foto

Ecco un’immagine con la statua di Eleonora realizzata da Vandalino Casu circondata dai busti di terracotta (grazie a O.Ponti)

Villa Mugoni

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Una tenuta abbandonata immersa nel verde a pochi passi dal mare

Villa Mugoni, Alghero

Mugoni è il nome di una delle spiagge più belle della zona di Alghero, nella baia di Porto Conte. Sabbia bianca, acqua cristallina, solite cose. Ma il nome di questo spiaggia deriva dalla famiglia in passato proprietaria di una bellissima villa e azienda agricola i cui resti sono oggi nascosti tra gli alti pini a pochi passi dal mare. L’azienda era nota per la produzione di vino e cotone.

Sebbene nel corso dei decenni abbia subito vari crolli e attacchi vandalici (le immancabili svastiche, proprio sulla facciata più bella della casa) Villa Mugoni colpisce ancora oggi per la sua bellezza e le sue dimensioni. Gli ampi spazi, la terrazza, le cantine, le linee liberty, le finestre ad arco e i bei pavimenti danno un’idea di quello che un tempo doveva essere l’aspetto di questa maestosa villa. A pochi metri sono presenti altre costruzioni: le scuderie e i magazzini dell’azienda, ormai del tutto coperti da un intricato groviglio di rovi e arbusti.  In tempi recenti è stato presentato un contestato piano di riconversione strutturale dell’area che prevederebbe la costruzione di un grande albergo di lusso al posto di quella che un tempo era la tenuta della famiglia Mugoni.

DOVE SI TROVA: nella baia di Porto Conte, all’interno della pineta Mugoni, a cui si accede dall’omonima spiaggia. Google Maps.

Villa Pietri

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Un tesoro nascosto nelle campagne di Ozieri, un’antica e misteriosa dimora di campagna

Villa Pietri, Ozieri
Villa Pietri, Ozieri

La villa Pietri è stata costruita verso la metà degli anni ’20 dalla famiglia Pietri, una casata nobiliare ozierese, alcuni dei cui membri erano medici, politici e avvocati. La direzione dei lavori fu coordinata dall’ingegner Garau-Perpignano.

Un ceppo commemorativo – situato sul perimetro ovest della tenuta, sul piazzale antistante la chiesetta campestre di Santo Stefano, anch’essa abbandonata e in attesa di un piano di recupero – ricorda un componente della famiglia, l’avvocato Stefano Pietri Carossini, realizzato nel 1934, nel decennale della sua scomparsa.

Una delle tante leggende che riguardano villa Pietri è quella che la identifica erroneamente come sede amministrativa della miniera di Su Elzu (o Suelzu), distante poche centinaia di metri. In realtà l’edificio è stato utilizzato solo per funzioni abitative, quindi abbandonato a un lento oblio fino ad arrivare ai giorni nostri, nascosto parzialmente dalla vegetazione.

Abbandonata da oltre 50 anni, la villa Pietri mantiene intatto il suo innegabile fascino di stampo ottocentesco. Situata a poche decine di metri dalla strada Ozieri-Pattada, di fronte alla vecchia stazione ferroviaria di Vigne (sulla tratta dismessa di Chilivani-Tirso), vi si accedeva attraverso un caratteristico cancello che si affaccia direttamente sulla carreggiata, opera dell'”artista del ferro” ozierese Giacomo Antonino.

Praticamente invisibile dalle auto, è circondata da un’ampia tenuta in mezzo alla quale emergono alcuni particolari che ci riportano idealmente all’antico splendore, tra cui una vasca ornamentale quasi ai piedi della casa e una piccola fonte-abbeveratoio a pochi metri di distanza.

La struttura è quella di una lussuosa villa a due piani, di stile neoclassico, che la fa vagamente somigliare a un tempio greco. La facciata presenta infatti un portico colonnato ornato da fregi e decorazioni e sopra di esso vi è un piccolo terrazzo. L’interno è parzialmente murato e alcune stanze sono inagibili a causa del crollo del soffitto in legno, che tuttavia è ancora presente in una delle stanze e nel corridoio superiore che conduce al terrazzo. Ben pochi oggetti si sono conservati: una vecchia cucina, diverse bottiglie ancora sistemate in una cantina, una sedia e una cassa di vini della “cantina sociale del Mandrolisai”.

La “leggenda” della miniera di Su Elzu non è l’unica che aleggia su villa Pietri: a Ozieri si raccontano misteriosi aneddoti, storie di fantasmi non meglio precisati, di raduni promiscui finiti con ingloriose fughe a gambe levate in preda al terrore. Dal nostro punto di vista, l’unica presenza che abbiamo avvertito è quella, fastidiosa e infestante, dei rovi che hanno invaso stanze e corridoi una volta sfarzosi.

Ma ciò non toglie che l’inquietudine che trasmette sia ugualmente opprimente: non spettri o entità, quanto piuttosto la ben più concreta certezza del tempo che scorre, dell’impietosa decadenza, del fatto che tutto, anche il palazzo più lussuoso, è destinato a crollare.

Dove si trova: Da Ozieri percorrere la SS 128b in direzione di Pattada per circa 2 Km, fino a uno spiazzo sulla sinistra antistante la chiesetta di S.Stefano. Google Maps

Foto

Com’era

(foto tratte da  “Saluti da Ozieri” di Gianfranco Saturno, Il Torchietto Editore, 1993)

Altre ville abbandonate in Sardegna:

Diga Coghinas, casa del capo centrale

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Un testimone silenzioso di quasi un secolo di storia del Coghinas

La casa del capo centrale della diga del Coghinas
La casa del capo centrale, diga del Coghinas
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Nel solitario e selvaggio scenario della stretta del Muzzone, alle pendici del massiccio del monte Limbara, si erge la diga e centrale idroelettrica del Coghinas, che con i suoi 185 metri di larghezza e 54 di altezza rappresenta una delle più audaci opere di ingegneria della Sardegna del primo ‘900. Costruita tra il 1924 e il 1926 per conto della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso, sotto la direzione degli ingegneri Angelo Omodeo e Luigi Kambo, venne inaugurata ufficialmente un anno più tardi, nel 1927. L’imponente sbarramento, che dà origine al lago Coghinas, è realizzato in calcestruzzo, pietra e muratura.

L’impianto idroelettrico era formato inizialmente da quattro turbine sotterranee “in caverna”, situate a valle della diga a quaranta metri sotto il letto del fiume. Nei primi anni di attività l’energia elettrica e l’ammoniaca prodotte venivano in parte impiegate per l’alimentazione delle fabbriche della Sarda Ammonia di Oschiri.

Quasi novant’anni dopo, il panorama è notevomente cambiato: i sogni e le speranze dell’epoca si sono dovuti confrontare con la crisi dell’industria sarda. La centrale idroelettrica è ancora attiva ma ha perso parte del suo antico prestigio, la Sarda Ammonia ha chiuso i battenti ormai da diversi decenni e anche il vicino villaggio Enel è stato abbandonato.

Un silenzioso testimone di questi cambiamenti è la villa che ospitava il direttore dell’impianto, costruita in contemporanea con la diga e oggi abbandonata, dopo essere stata usata probabilmente come magazzino. La casa, in stile Liberty tipico dell’epoca, si erge sulla sponda orientale della gola e domina dall’alto la centrale e la parte finale dell’invaso, quasi a contemplarli ancora oggi orgogliosamente. Strutturata su tre piani, l’interno è pericolante e i piani superiori sono difficilmente accessibili. Ben poco è rimasto al suo interno, anche se si possono ancora osservare alcune particolari decorazioni che ci riportano idealmente all’epoca della costruzione. Al di sotto del livello stradale vi è un ulteriore sottopiano, adibito a deposito di macchinari, due dei quali sono oggi visibili.

Ma la casa del capo centrale non è il solo testimone della storia industriale del Coghinas. A pochi passi dalla casa del capocentrale, anche se invisibile, c’è il villino che ospitò la famiglia del direttore della Sarda Ammonia.

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DOVE SI TROVA: subito dopo la centrale Enel del Coghinas. L’edificio è pericolante e l’accesso è vietato. Google Maps.


Villino del Coghinas

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Un misterioso villino nascosto tra i rovi racconta la storia dell’industria chimica sarda

Stretta del Muzzone, lago del Coghinas
Villino sulla Stretta del Muzzone, lago del Coghinas
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Ottant’anni dividono le foto in bianco e nero da quelle a colori pubblicate qui sotto. Ma per capire perché sulla diga del Coghinas si trovi questa costruzione così particolare bisogna prima fare qualche passo indietro.

Nella seconda metà degli anni ’20, con la costruzione dello sbarramento sul lago Coghinas, si venne ad avere un quantitativo di energia elettrica superiore al fabbisogno di una terra così poco industrializzata come era la Sardegna. Pertanto venne l’idea di realizzare concimi chimici di cui aveva gran bisogno l’isola, e magari esportarne l’eccesso nella Penisola.

Il progetto era ambizioso: produrre l’ammoniaca in un apposito stabilimento nel Coghinas, per poi pomparla ad Oschiri dove, in prossimità della stazione ferroviaria, vi sarebbe stato un secondo stabilimento in cui sarebbe avvenuta la produzione vera e propria del concime dopo aver trattato l’ammoniaca. Il cuore di tutto il processo stava proprio in quest’ultimo composto, il cui ottenimento avveniva mediante un innovativo processo brevettato dall’ing. Giacomo Fauser , processo che, data la sua gioventù, necessitava di messa a punto ed ottimizzazione per superare gli inconvenienti tecnici e per fare in modo che la sua resa fosse conveniente su scala industriale

A dirigere lo stabilimento fu chiamato il dott. Guglielmo Fadda, laureato in Chimica all’Università di Cagliari. Egli arrivò al Coghinas, alla fine degli anni 20 avendo un bagaglio di esperienze ancora ridotto, ma nonostante tutto riuscì a risolvere brillantemente una grossa mole di problemi e a tenere abbondantemente testa a due validissimi tecnici come il già citato ing. Fauser e Il dott. Giulio Natta che più tardi diventerà premio Nobel per la chimica. Anzi: proprio quest’ultimo venne spesso al Coghinas per seguire l’evoluzione di quella che era una realtà di primo piano nell’industria chimica italiana, ma che purtroppo scomparve all’alba degli anni ’60.

villino-coghinas2La prima abitazione a cui venne destinato il dott. Guglielmo Fadda fu proprio il villino di cui ci occupiamo.

Sono passati ottant’anni e il villino è ancora in piedi, sebbene ormai quasi irraggiungibile, nascosto dai rovi e praticamente invisibile. Addirittura si pensava non esistesse più, demolito dalla stessa azione del tempo. A quanto è dato sapere la famiglia soggiornava nella costruzione senza avere la possibilità di usare la corrente elettrica per una stufa, nonostante il freddo consistente e la presenza della centrale a pochi passi che garantiva elettricità gratuita e illimitata.

Non si sa a chi si debba ascrivere la costruzione del villino: forse ad Amerigo Boggio Viola, straordinario impresario biellese che costruì la maggior parte dei fabbricati presenti al Coghinas, piegando alla sua volontà gli aspri versanti rocciosi di questa stupenda zona dell’ Oschirese. Comunque è interessante notare la tecnica costruttiva che prevedeva, a partire dall’esterno, una guaina bituminosa pitturata di bianco (sulla quale sono state applicate delle decorazioni lignee) e un assito di tavole verticali che copre la parete muraria interna.

Rispetto alle foto originarie si nota la presenza di un muro di sostegno retrostante e di una balconata in cemento armato che ha sostituito quella originale in legno. L’intera costruzione è ormai scomparsa tra rami e radici che l’avvolgono e la soffocano come dei serpenti, ma allo stesso tempo sembrano proteggerla come un sarcofago di edera e rovi. Il posto è decisamente troppo difficile da raggiungere per essere colpito dal vandalismo. All’interno si scorgono segni di vita quotidiana del passato: bottiglie di medicinali, letti pieghevoli e, ironia della sorte, sacchi di diserbante della Shell, di quello che veniva usato proprio per combattere le piante infestanti.


(ringraziamo per la collaborazione Antonello Orani)

Foto

DOVE SI TROVA: di fronte all’ultima costruzione – la casa del capocentrale – subito dopo la diga, guardando verso il versante roccioso sovrastante.La struttura è molto difficile da raggiungere e in condizioni statiche assai precarie. Google Maps.

Villaggio Normann

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Ex villaggio minerario, oggi è ancora abitato, ma i bellissimi edifici abbandonati sono popolati soprattutto da scritte e sfoghi di ogni genere

Villaggio Normann, Gonnesa
Villaggio Normann, Gonnesa

Si trova in uno degli angoli più suggestivi del Sulcis-Iglesiente, sul costone del monte di S.Giovanni, tra pini, palme e macchia mediterranea e il mare a portata di sguardo. E’ Normann, con due enne, minuscola frazione di Gonnesa ed ex villaggio minerario. Qui abitavano i dipendenti della vicina miniera di San Giovanni, un’antica miniera già conosciuta addirittura in epoca romana, dove dal 1867 in poi si iniziò a scavare una vena argentifera. La miniera rimase in attività, tra alti e bassi, fino agli anni 80 del Novecento, quando venne definitivamente abbandonata. A Normann oggi abitano una settantina di persone. Case nuove e molto curate si mescolano ai ruderi che ricordano il passato minerario, un po’ come a Montevecchio o all’Argentiera. Gli edifici interessanti sono soprattutto quattro: la villa Stefani, la villa Pintus, il rudere della chiesa di S.Giovanni all’entrata del paese e lo spaccio aziendale. In particolare nella villa Pintus, quella che sembrerebbe la più recente delle costruzioni abbandonate, hanno trovato spazio sfoghi giovanili e pulsioni infantili e trasgressive di ogni genere, come dimostrano le numerose scritte sui muri. Si va dagli inni a Mussolini, al KKK, a Satana, a Gesù, perfino alla brigate rosse (con una doppia di troppo: “brigatte rosse”), oltre ad insulti personali, poesie, le solite svastiche disegnate male, disegni osceni e disperati appelli all’amore libero. E’ interessante notare come in questi luoghi isolati e abbandonati, a pochi passi dalla civiltà ma comunque al riparo da sguardi indiscreti, il cuore dei giovani del luogo si lasci andare ad ogni genere di espressione, apparentemente senza filtro, in queste stanze che fungono da sfogatoio, dove il confine tra lo scatologico e l’escatologico si fa labile.

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DOVE SI TROVA: nel sud della Sardegna, nel comune di Gonnesa, dopo la miniera di San Giovanni. Superata Bindua seguire le indicazioni per “Normann”. Google Maps.

Villa Webber

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Una strana villa che sembra un castello, in cima all’isola de La Maddalena. Apparteneva a un ricco inglese, ma qui nel 1943 fu nascosto il prigioniero Benito Mussolini.

Villa Webber, La Maddalena
Villa Webber, La Maddalena
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C’è chi definì il fascismo un regime da operetta. Un paragone assolutamente ingiusto e irriverente: l’operetta è stata uno dei più grandi generi musicali e teatrali degli ultimi secoli, nel quale anche l’Italia ha avuto le sue eccellenze come il napoletano Carlo Lombardo, autore di Cin Cin La e Scugnizza. Ma prendendo per buono questo paragone, non c’è dubbio che villa Webber fu una delle scenografie adatte al penultimo atto della dittatura di Mussolini.

A vederla oggi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di falso, come se dietro non ci sia nulla, solo un’improbabile facciata di cartapesta. Ma dopo aver attraversato il bellissimo parco di pini in cui è immersa, dopo aver superato i diversi muri perimetrali che la circondano e aver varcato la porta d’ingresso, si capisce che non ci si trova sul palco di un’operetta: villa Webber esiste davvero. Ed esiste da più di un secolo.

Costruita a fine 800 a La Maddalena, su un promontorio in località Padule, deve il nome al suo primo proprietario, l’inglese James Phillipps Webber. Un personaggio misterioso che fece costruire la villa in un raffinato e oggi un po’ improbabile stile moresco-italiano. Webber visse a La Maddalena per 25 anni, fino alla sua morte. Di lui si disse un po’ di tutto, anche che fosse una spia al servizio di sua maestà la regina. Di certo sappiamo che era un ricco commerciante, amante dell’arte e della cultura, che non si sposò e che morì a Pisa, mentre era in viaggio, all’età di 80 anni. All’interno della villa si trovavano mobili e soprammobili preziosi, dipinti d’autore e una grande collezione di libri (che, si dice, Webber spolverava di persona, non fidandosi dei domestici) e altre antichità che il proprietario mostrava orgoglioso ai suoi ospiti.

La villa fu abitata fino al 1928, poi parte degli arredi furono messi all’asta, finché nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra, venne requisita dallo Stato Regio Italiano. Perché? Per diventare provvisoriamente una prigione per uno dei protagonisti di quella terribile guerra. E’ proprio qui infatti che l’autoproclamatosi Duce Benito Mussolini venne nascosto dal 7 al 27 agosto 1943 (pare nelle due belle stanze a levante, con splendida vista mare) prima di essere trasferito sul Gran Sasso, dove tenterà di suicidarsi tagliandosi le vene, per poi essere liberato dai tedeschi. Ma questa è un’altra storia.

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Scale, villa Webber

La storia della villa prosegue anche dopo la permanenza di Mussolini. Una volta abbandonata dalle milizie italiane e dagli 80 carabinieri che circondavano il parco, la villa inizia il suo declino: viene rubato tutto ciò che si può rubare, fino ad essere svuotata. E’ probabile che successivamente sia stata usata per altri scopi, ma l’impressione è che venga lasciata andare a un lento e inesorabile oblio.

Oggi le grandi stanze vuote, gli splendidi pavimenti e i soffitti affrescati, riescono a trasmettere solo una vaga idea del passato splendore. Intorno alla villa si trovano i ruderi di altre costruzioni, probabilmente le abitazioni della servitù, magazzini e stalle.

Sui muri poche scritte, quasi nessuna recente, come se il mondo a villa Webber si fosse fermato qualche decennio fa. Eppure quelle pareti hanno sicuramente corso un rischio: quello di diventare testimoni di un pellegrinaggio di nostalgici del fascismo. Cosa che – se si esclude un solo simbolo neofascista, comunque in compagnia di altri simboli più o meno politici – a quanto pare non è successa, o almeno non ne hanno lasciato traccia.

Tracce che invece hanno lasciato i cinghiali, gli unici oggi a frequentare la villa assieme ai bellissimi gatti della vicina colonia felina e ai maddalenini che hanno voglia di fare una passeggiata in uno degli angoli più suggestivi e meno conosciuti della loro isola.

DOVE SI TROVA: a La Maddalena, in località Padule. Precisiamo che si trova in un terreno privato e l’accesso è vietato. Google Maps.

Ecco la villa in una foto d’epoca, probabilmente una sorta di cartolina commemorativa:

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La Cupola

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La Cupola, uno strano angolo di Paradiso, realizzato dal vulcanico architetto Dante Bini e in passato appartenuto a Michelangelo Antonioni

Cupola realizzata da Dante Bini. Si trova in una proprietà privata e ogni accesso è vietato.
Cupola realizzata da Dante Bini. Si trova in una proprietà privata e ogni accesso è vietato.

Siamo in Costa Paradiso, nel versante della Gallura meno noto che guarda a occidente. Un enorme villaggio turistico esteso per chilometri, simbolo del turismo d’élite ma anche di speculazione edilizia e stravolgimento del paesaggio. Le costruzioni paiono soffrire questa accusa, e si mimetizzano, sembrano scogli sulla terra: tanto verde, pietra e colori locali, strade che seguono il pendio, un traffico ordinato e tranquillo. Tutto sorvegliato e organizzato anche durante l’inverno, con la manutenzione che non si ferma mai.

Ma qualcosa non si mimetizza affatto. All’estremo settentrionale dell’insediamento, al termine di un dedalo di vie con davanti solo la macchia e il golfo dell’Asinara, due oggetti non identificati spiccano nel contesto, dalla strada come dal satellite. Due cupole di cemento che ricordano un’esposizione internazionale o una metropoli futuristica, ma sono atterrate in un villaggio turistico mediterraneo. A vederle così grigie, trascurate e vuote, si pensa subito a un ecomostro, persino a un abuso, qualcuno invocherebbe le ruspe magari davanti alle telecamere. E allora come mai quest’opera dimenticata è ancora studiata nelle università di tutta Europa, e persino i giornali stranieri ne denunciano la rovina?

Perché la grande villa era dell’acclamato regista ferrarese Michelangelo Antonioni. E non ha mai cercato di nascondersi, perché rappresentava il progresso e fu costruita, per impressionare e conquistare la sua compagna Monica Vitti, dal vulcanico Dante Bini, giustamente noto come l’architetto delle bocce o l’architetto delle piramidi.

Si tratta di una tecnica costruttiva estremamente innovativa per l’epoca dei ruggenti anni sessanta, e ancora in uso: il Binishell. Questa cupola, come la sorella più piccola costruita affianco, è sorta in brevissimo tempo grazie a un’unica gettata di cemento armato, letteralmente gonfiata e sollevata dalla pressione dell’aria al suo interno. Quando il cemento si solidifica, si bucano le pareti ritagliando le aperture desiderate, e il più è fatto, quasi sempre senza rischi. Per la Costa Paradiso furono anni di jet-set: pittori, artisti ed editori, ma soprattuto attori e registi. Dal film del ‘64 dello stesso Antonioni, il Deserto Rosso girato nella vicina Budelli che gli fece scoprire l’impresario e proprietario, a Black Stallion prodotto nel ‘79 da Francis Ford Coppola. Dalla villa due sentieri ricavati nella roccia conducono al mare e a un piccolo stagno, conche e torrenti, addirittura un piccolo fiordo e un’isoletta, segno di una natura ancora stupenda anche se calpestata, specie nel passato.

Ma le relazioni finiscono, nel mondo dello spettacolo spesso bruscamente: ex e amanti rimasero ancora per alcuni anni in Costa Paradiso vivendo nelle case vicine, poi partirono tutti. La villa-cupola ovoidale, casa a uovo o cupola di Antonioni fra i tanti nomi che ha ricevuto, passò di mano in mano e lentamente iniziò il suo declino. Lentamente gli infissi si scheggiano e spezzano, i ferri del cemento armato si scoprono, le piante crescono floride, dal ruvido intonaco sbuca la pelle aliena.

Oggi la villa ha dei proprietari ed è vietato entrare al suo interno, ma solo ammirarla da fuori nel rispetto della privacy e della proprietà privata.

Dove si trova: nord della Sardegna, più precisamente Costa Paradiso, sul mare. Non si può visitare: si trova in una proprietà privata e sconsigliamo assolutamente ogni trasgressione. Google maps.

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Diga Santa Chiara, casa del capocentrale

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Una casa che appare e scompare, uno scrigno di segreti sotto il lago Omodeo

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Casa sommersa, lago Omodeo,
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Il lago Omodeo è uno scrigno che sotto l’acqua nasconde vari tesori: tombe di giganti, domus de janas, un insediamento prenuragico, una foresta tropicale fossile con alberi di 20 milioni di anni, ossa di animali estinti, i resti di un paese ricostruito altrove e anche una casa a due piani che appare e scompare a seconda del livello dell’acqua. Sembra che questo edificio non voglia abbandonare del tutto la superficie, anche se il suo tempo è passato da un pezzo ed è legato alla storia della vecchia diga di Santa Chiara. Che comincia circa un secolo fa.

Nel 1917 iniziano i lavori che porteranno alla realizzazione di quello che per decenni sarà considerato il più grande lago artificiale d’Europa. La progettazione è affidata all’ingegnere Angelo Omodeo, colui che darà il nome al lago, e la costruzione all’ing. Giulio Dolcetta. Noi forse avremmo preferito Lago Dolcetta, ma non facciamo polemiche. Comunque nel vicino villaggio di Santa Chiara c’erano sia via Omodeo sia piazza Dolcetta, quindi va bene così.

Lo scopo di questa importante opera era quello di produrre energia elettrica e di sfruttare le acque del fiume Tirso per l’irrigazione del Campidano. Ma prima di iniziare i lavori, c’era un problema da risolvere: Zuri, un piccolo borgo di circa venti case che si trovava a 88 metri sul livello del mare, mentre l’acqua del lago sarebbe arrivata a 105 metri. Fatti due calcoli, Zuri sarebbe annegato. Quindi,  per evitare che Zuri diventasse la piccola Atlantide dell’Omodeo, ancora prima dell’inizio dei lavori ufficiali si procedette alla demolizione dell’abitato.

Ci volle quasi un mese per buttare giù le case (i cui resti, in parte, dovrebbero trovarsi ancora là sotto) per poi ricostruirle in una altura vicina, al sicuro, e qualche anno in più per risolvere un altro problema: la chiesetta romanica del 1291. Per quanto l’idea di una chiesa sommersa sia sempre suggestiva, si decide di smontarla e rimontarla mattone per mattone, un processo che si chiama anastilosi (qui una foto della chiesa prima e dopo), e oggi potete ammirarla all’entrata del piccolo borgo in tutta la sua integrità.

Risolto il problema Zuri, i lavori della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche sul Tirso vanno avanti fino al 1923, e nell’aprile del 1924 ci fu l’inaugurazione ufficiale della diga con tanto di visita del re.

DSCN9083A valle della diga venne costruita la centrale idroelettrica, e grazie ad essa Ulà Tirso fu il primo paese della Sardegna ad avere l’energia elettrica. All’epoca, e per molto tempo, l’Omodeo era il lago artificiale più grande d’Europa, come tutti i bambini sardi, per decenni, hanno imparato a memoria sui libri di scuola.

Ma arrivò per la vecchia diga il momento di andare in pensione: nel 1997 venne inaugurata la nuova diga, più alta e dal bacino più capiente, che comportò un innalzamento del livello dell’acqua. Così la valle venne sommersa e tutto, animali estinti, foresta tropicale, resti di Zuri, sparì per sempre sotto l’acqua. O quasi.  Ogni tanto, quando il livello dell’acqua cala, viene fuori il passato: la foresta pietrificata, qualche nuraghe, pali della luce e anche quella che viene chiamata la casa del capocentrale o da alcuni “casa del custode”.

In realtà in questa casa erano ospitati il capocentrale, il vicecapo e le loro famiglie. Si trova proprio sotto la vecchia diga, di fronte al ponte che la sovrasta. Dall’alto gli automobilisti probabilmente non notano nulla, anche perché per buona parte dell’anno l’edificio è quasi del tutto coperto dall’acqua. Era una bella villa a due piani circondata da un giardino con un laghetto, un frutteto, delle palme e un banano. L’edificio era costituito da due appartamenti perfettamente simmetrici: al piano terra la cucina con camino, un salone, un piccolo soggiorno e uno stanzino dov’era posizionato il telefono (collegato con la centrale del Tirso); al secondo piano quattro camere da letto e il bagno, e sopra un sottotetto.

In questa casa nacquero due  bambine: Antonia Tilocca, figlia dell’allora capo centrale Proto Tilocca, nata nel 1930 e Lucia Pisano, figlia del vice capocentrale, nata nel 1940. Facciamo i nomi perché possiamo mostrare anche i volti della famiglia Tilocca (grazie al figlio di Antonia, Ivan, che ringraziamo) in queste bellissime fotografie che documentano la vita alla diga in quel periodo e anche i danni provocati dai siluri che colpirono la diga nel 1941 (su tre due andarono a segno, uno si fermò per un guasto all’elica) e dalle bombe del 1943. Ebbene sì, alla diga si giocava anche a tennis!

Sul fronte opposto rispetto alla casa del capocentrale, più in alto e quindi non scomparsa sotto l’acqua, si trova un altro edificio, oggi decisamente vandalizzato, che in passato ospitava i carabinieri di Ulà Tirso e successivamente i custodi della diga. Dopo l’incidente del Vajont del 1963 le misure dei sicurezza nelle dighe aumentarono. I custodi della diga Santa Chiara facevano 3 turni da 8 ore per coprire l’intera giornata ed effettuare quotidianamente i controlli di sicurezza.

E’ anche per questo che ogni mattina alle 10 in tutte le zone a rischio (praticamente tutto l’oristanese) suonavano le sirene usate in precedenza solo durante la Seconda guerra mondiale: era un test che aveva il significato di “è tutto ok”. Se le sirene avessero suonato in un altro orario avrebbe significato che era successo qualcosa alla diga e che i paesi vicini al Tirso andavano immediatamente evacuati. Sulla storia della diga e del suo inabissamento esiste un bel documentario di Franco Taviani, “Adiosu diga addio”, da non confondersi con il nostro Adiosu.

Dove si trova: lago Omodeo, non lontano da lì c’è anche il villaggio di Santa Chiara, dove vivevano i dipendenti della Società Elettrica Sarda. Google Maps.

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