Una villa e un’azienda abbandonate da oltre 35 anni, resti della storia di una famiglia di imprenditori
Il Coghinas si conferma l’alfa e omega dell’abbandono sardo: acque poco frequentate, che dalle sorgenti alla foce segnano le memorie di un pionieristico passato ingiustamente dimenticato.
Siamo nel centro di Valledoria, nella frazione capoluogo di Codaruina. Poco lontano dall’estuario si nascondono qui in Anglona i resti delle fabbriche che per un secolo hanno portato fortuna e celebrità alla famiglia Stangoni. Furono una casata di brillanti imprenditori di origini corse provenienti da Aggius, che nel 1880 si stabilirono nella bassa valle del Coghinas dopo avervi individuato un possibile terreno di sviluppo, dove il suocero anni prima aveva costruito una cascina alle porte del paese.
Il giovane capo-famiglia, Pier Felice, professore di Diritto e Legislazione rurale, riuscì coraggiosamente a intravedere delle potenzialità di sviluppo in questa zona da sempre paludosa, malarica e soggetta a frequenti alluvioni. Acquistò quindi numerosi ettari di terreno agricolo e vi ampliò la cascina già presente.
La sua parabola si concluse tragicamente il giorno di Ferragosto del 1904: mentre tornava dalla spiaggia fu ucciso davanti ai suoi due figli Arnaldo e Alberto Mario, forse per rivalità da altri possidenti.
Ma gli orfani dell’imprenditore non si persero d’animo: dopo aver trascorso l’infanzia in un collegio fiorentino e conosciuto le atrocità del primo conflitto mondiale, tornarono a Valledoria nel 1920. Qui ripresero in mano l’attività paterna potenziando le mansioni agricole e avviando estesi lavori di bonifica.
Il paese crebbe spinto dalle opportunità di lavoro per la popolazione dei dintorni, passando in pochi decenni dalla ventina di abitanti iniziali ad alcune centinaia. Grazie ai finanziamenti di un’industria toscana del tabacco ora in stretta alleanza, e al coinvolgimento di un architetto belga, vicino alla cascina vennero erette una sontuosa villa liberty e la chiesetta di san Giuseppe, facente parte del terreno padronale.
Giunse il secondo dopoguerra, periodo di massima attività dei fratelli Stangoni, che ormai controllavano un piccolo impero economico fondato sulla manifattura del tabacco e soprattutto sulla produzione industriale di carciofi, pomodori e grano, di cui erano i principali coltivatori dell’Anglona. In particolare, nel 1946 venne costruita all’altro capo del paese la “fabbrica Stangoni”, concepita per l’inscatolamento di pomodori pelati. Quattro anni più tardi nacque il Consorzio di Bonifica della Bassa Valle del Coghinas, il cui cuore era proprio la “Azienda agricola F.lli Stangoni – Codaruina”, che ormai commerciava in tutta l’isola e riceveva continue visite di consulenti della penisola, fortemente interessati al dinamico aspetto gestionale.
Contro le aspettative, il seguente boom economico e l’allargarsi del mercato colpirono mortalmente la piccola realtà territoriale e il sogno degli Stangoni, la cui attività produttiva si spense gradualmente. Già negli anni ’60 l’azienda Stangoni chiuse i battenti e venne abbandonata, e nel 1980 la bellissima villa subì la stessa sorte, pochi anni dopo la morte dei fratelli. Alcuni volantini disseminati al suo interno lasciano intendere che, nell’ultimo periodo, l’edificio fu utilizzato a fini turistici come albergo e agriturismo, con tanto di scuola di equitazione e di volo con deltaplani, l’ultimo improbabile colpo di coda prima dell’oblio.
Oggi la villa Stangoni riesce a trasmettere ancora il suo fascino, imponente, inquietante e vagamente spettrale. Ma allo stesso tempo è una bizzarra commistione di stili, con esterni liberty in un cortile da scuderia, alcune stanze con aspetti caratteristici di inizio secolo e altre con motivi e struttura tipicamente anni ‘70.
Davanti a lei solo infinite distese di pungenti carciofi, il nuovo oro verde del Coghinas.
Dove si trova: nord Sardegna, subito fuori da Valledoria, lungo la SP33. Google Maps.
Una tenuta abbandonata un tempo dimora di una baronessa. Ma tra le rovine avvolte dalla vegetazione si nasconde la storia di una storica rivolta dei contadini
La SS126 è una strada stretta e lunga, un bel rettilineo che attraversa la pianura tra San Nicolò d’Arcidano a Guspini tra campi e piccole aziende. A un certo punto, nella zona nota come Sa Zeppara, si notano in lontananza i resti di una grossa costruzione. Un viale abbandonato arriva a quello che sembra qualcosa di più del solito casale di campagna.
Questa grossa costruzione oggi in rovina ha una storia interessante da raccontare. È il dominario di Sa Zeppara, una grande tenuta appartenuta alla baronessa Luigia Serra Rossi. Qui c’erano i suoi possedimenti, circa mille ettari di terreno. E qui c’è stata una storica rivolta contadina. Oltre agli appartamenti per la signora e per i suoi ospiti che arrivavano dalla città, cioè la parte più simile a una vera e propria villa, qui c’era un grossa fattoria, con le case dei braccianti e dei coloni, i magazzini, le stalle, una minuscola chiesetta successivamente adibita a granaio e oggi più simile a una piccionaia, e perfino un’aula scolastica.
Il primo maestro fu un fattore della Baronessa che svolse lezioni nei locali di residenza sino al 1963, anno in cui venne inaugurata la scuola elementare nel vicino villaggio di Zeppara. Nella tenuta si radunavano i pastori, i mezzadri, le guardie e qualche povero bracciante in cerca di lavoro.
Mauro Serra, nel suo interessante libro “Le invasioni delle terre”, racconta che prima degli anni Cinquanta il territorio di Sa Zeppara era una distesa selvaggia di decine e decine di ettari ricoperti da macchia di lentisco, rovi, vecchie querce contorte e acquitrini. Il terreno era destinato al pascolo di mandrie di buoi e di migliaia di pecore. Nel folto della rada vegetazione erano presenti conigli, lepri, pernici, quaglie e volpi. Nel fiume e nelle paludi si potevano osservare anatre selvatiche, gallinelle, ricci e anguille. Il suolo coltivato non era che una minima parte, però con una buona resa grazie alla presenza delle mandrie che ne fertilizzavano il terreno. Questo era il feudo della baronessa Rossi e, in misura minore, di Sisinnio Foddi di Gonnosfanadiga.
La costruzione del dominario potrebbe risalire ai primi anni del 1800. Probabilmente vi furono interventi di ristrutturazione e ampliamento nel 1882 quando il Barone Salvatore Rossi non era ancora proprietario di Sa Zeppara. La forma attuale del complesso è stata raggiunta nel corso del tempo, come si deduce anche dall’uso dei diversi materiali. Gli adattamenti furono realizzati in relazione a nuove esigenze tecniche ed economiche ma anche legate al lignaggio e alle esigenze personali dei nuovi proprietari.
Salvatore Rossi, nato a Cagliari nel 1775, era un imprenditore. Quale riconoscimento della sua capacità nel campo degli affari venne proclamato barone con un diploma firmato dall’allora Re di Sardegna Carlo Alberto.
Quando Rossi diventa barone a Cagliari è un uomo ricco e famoso. Aveva avviato un redditizio commercio di granaglie e di tessuti, gestito le tonnare di Porto Paglia, Portoscuso e dell’Isola Piana, acquistato tre bastimenti e messo in piedi una fabbrica, promosso la costituzione di una banca e di un monte di pietà. Ma non era ancora soddisfatto e, nonostante l’età avanzata, si prodigava per impiantare uno stabilimento per la produzione di tessuti.
La Baronessa Luigia Serra Rossi, deceduta nel 1992 all’età di 98 anni, apportò alla struttura modifiche di carattere igienico: costruzione di bagni interni con acqua calda e di camini per il riscaldamento. Abbellì l’esterno con i giardini.
Nella parte centrale dell’edificio storico vi era una corte interna che venne sostituita da una sorta di “torretta vetrata”, con bella vista, da utilizzarsi in primavera e autunno.
La baronessa, che conservò la proprietà degli edifici di Sa Zeppara fino alla morte, la ricordano in tanti. Evidentemente era un personaggio che, soprattutto in quelle povere zone di campagna, si faceva notare. C’è chi la ricorda quando, cavalcando sia all’amazzone che al maschile, visitava i suoi possedimenti, attirando l’attenzione di tutti.
La baronessa infatti pare fosse molto bella e per comodità, quando cavalcava, metteva vestiti attillati, all’epoca non molto diffusi. Sembra che ciò provocasse una sorta di eccitazione fra i dipendenti: evidentemente vedere il sedere di una donna sopra un cavallo in movimento doveva essere poco frequente soprattutto, in quelle campagne isolate.
Sulle abitudini della baronessa sono nate fantasie a metà tra i ricordi e il mito, come ad esempio il fatto che, quando visitava i suoi possedimenti, i contadini dovevano mungere le mucche per riempire la vasca di latte, nel quale la nobildonna soleva fare abluzioni di bellezza.
Era di certo una donna forte, un’autentica imprenditrice, se si pensa che la sua fu la prima azienda agraria in Sardegna ad avere trattori e mietitrebbia muniti di motori diesel.
Un nipote, a cui la baronessa affidò il suo intero patrimonio quando era ancora in vita, in una intervista dichiara: “Mia nonna era ricchissima. Possedeva 130 appartamenti a Cagliari, 50 a Roma, una azienda agraria di 1.000 ettari tra Guspini, San Nicolò D’Arcidano, Pabillonis e Mogoro, 20 ettari di area fabbricabile a Cagliari, e 700 operai alle dipendenze”.
Nel 1949 però si comincia a parlare di riforma agraria, di esproprio, di terre per i braccianti. Nel 1950 il territorio di Sa Zeppara è tra quelli attraversati dai fermenti politici per la richiesta di assegnazione di terre incolte intrapresa dai braccianti. Come già successo in Sardegna e in altre regioni d’Italia, inizia una rivolta. La mattina dell’8 marzo del 1950 oltre 3.000 contadini, provenienti in gran parte da Guspini ma anche da Pabillonis, San Nicolò d’Arcidano e da altri comuni del circondario, occuparono circa 200 ettari di terra nella tenuta di Sa Zeppara.
L’Unità del 9 marzo 1950
Gli occupanti si presentarono muniti degli attrezzi da lavoro e con cartelli di protesta con scritte come “voglio pane e lavoro”, “siamo disoccupati”, “vogliamo lavoro”, e si impegnarono a spietrare il terreno suddividendosi in parti uguali la terra da coltivare. Ci furono vari scontri con i Carabinieri a cavallo e il reparto celere della Polizia giunti appositamente da Cagliari per reprimere la rivolta dei braccianti. Alcuni di loro vennero arrestati e altri furono vittime di pestaggi.
L’occupazione delle terre da parte dei braccianti fu uno degli episodi più clamorosi della storia del movimento di rivolta che portò alla riforma agraria. Parteciparono all’occupazione anche deputati e consiglieri regionali, alcuni dei quali furono arrestati destando indignazione. La legge stralcio non risolse i problemi dei contadini senza terra a causa di una riforma agraria solo parzialmente attuata.
Ancora prima della rivolta i proprietari di Sa Zeppara furono oggetto di estorsioni da parte di alcuni briganti che uccisero diversi capi di bestiame. Un dirigente dell’azienda informò i Carabinieri e uno squadrone di sessanta militari a cavallo raggiunse la zona, venendo alloggiati nei locali della proprietà Rossi con il vitto a carico di quest’ultima. I possedimenti della Baronessa furono sorvegliati giorno e notte fino a che la banda di malviventi non fu annientata in un conflitto a fuoco.
Nel maggio del 1951 nasceva l’ETFAS, l’Ente per la Trasformazione Fondiaria e Agraria in Sardegna. La riforma prevedeva l’espropriazione delle terre incolte, la messa in atto di vasti e organici piani di colonizzazione e di trasformazione, e la creazione di importanti infrastrutture, prima di procedere all’assegnazione delle nuove aziende ai contadini.
Le terre della Baronessa Rossi vennero acquisite in parte dalla Regione che a metà degli anni Settanta creò la Boscosarda, l’azienda agricola e zootecnica a cui vennero assegnati mille ettari. Furono costruite stalle e coltivati i campi. Finì tutto nel 1983 con le terre date in affitto agli ex-dipendenti.
Oggi di quell’importante azienda rimangono alcuni edifici in gran parte crollati a causa dell’incuria ma anche da un incendio che ha distrutto i tetti di alcune palazzine.
Si riconosce parte dell’abitazione della baronessa con piano terra costruito in pietrame e con dei pregevoli archi in uno degli ingressi. Una parte del piano superiore appare di costruzione più recente con l’utilizzo di laterizi. Sul davanti, nella parte esterna al nucleo principale, vi era un giardino: oggi un grosso rampicante ha raggiunto i piani superiori e il tetto e rovi e cespugli di lentisco hanno colonizzato il resto.
Molti dei soffitti sono crollati e le grosse travi si incrociano tra loro creando curiose forme geometriche. Alcuni capannoni sono stati ristrutturati con delle imponenti capriate in legno. Qua e là si intravedono tetti in lamiera e anche lastre di eternit.
Accanto alla villa della Baronessa si trova una piccola chiesa, una cappella con un altare marmoreo ricoperto completamente dagli escrementi dei piccioni, che sono praticamente ovunque. In tempi abbastanza recenti è stato demolito il campanile a vela, osservabile in vecchie fotografie. Resta ancora in piedi una vecchia antenna televisiva risalente a quando in Italia si trasmetteva un solo canale.
La parte dedicata alla residenza dei contadini e dei fattori, tutta in pietra, è stata ristrutturata conservando l’impianto architettonico originale. Se ne sono ricavate stanze da letto per un agriturismo che occupa una parte del vecchio complesso. Di fronte ad esso, oltre la strada, vi sono altri due edifici: una cabina elettrica risalente ai primi anni Cinquanta e un altro edificio probabilmente adibito a deposito.
Difficile immaginare, osservando queste scomposte rovine, le mille storie dietro questi piccoli edifici: non solo quelle che hanno visto la leggendaria baronessa come protagonista, ma anche quelle dei contadini, dei loro parenti, dei loro figli, dei braccianti, di tutti quelli che hanno passato un pezzo della loro vita in queste terre, e perfino dei loro animali. Tutto è volato via in un attimo, come i piccioni spaventati dalla nostra presenza.
Una tenuta abbandonata immersa nel verde a pochi passi dal mare
Villa Mugoni, Alghero
Mugoni è il nome di una delle spiagge più belle della zona di Alghero, nella baia di Porto Conte. Sabbia bianca, acqua cristallina, solite cose. Ma il nome di questo spiaggia deriva dalla famiglia in passato proprietaria di una bellissima villa e azienda agricola i cui resti sono oggi nascosti tra gli alti pini a pochi passi dal mare. L’azienda era nota per la produzione di vino e cotone.
Sebbene nel corso dei decenni abbia subito vari crolli e attacchi vandalici (le immancabili svastiche, proprio sulla facciata più bella della casa) Villa Mugoni colpisce ancora oggi per la sua bellezza e le sue dimensioni. Gli ampi spazi, la terrazza, le cantine, le linee liberty, le finestre ad arco e i bei pavimenti danno un’idea di quello che un tempo doveva essere l’aspetto di questa maestosa villa. A pochi metri sono presenti altre costruzioni: le scuderie e i magazzini dell’azienda, ormai del tutto coperti da un intricato groviglio di rovi e arbusti. In tempi recenti è stato presentato un contestato piano di riconversione strutturale dell’area che prevederebbe la costruzione di un grande albergo di lusso al posto di quella che un tempo era la tenuta della famiglia Mugoni.
DOVE SI TROVA: nella baia di Porto Conte, all’interno della pineta Mugoni, a cui si accede dall’omonima spiaggia. Google Maps.
Un tesoro nascosto nelle campagne di Ozieri, un’antica e misteriosa dimora di campagna
Villa Pietri, Ozieri
La villa Pietri è stata costruita verso la metà degli anni ’20 dalla famiglia Pietri, una casata nobiliare ozierese, alcuni dei cui membri erano medici, politici e avvocati. La direzione dei lavori fu coordinata dall’ingegner Garau-Perpignano.
Un ceppo commemorativo – situato sul perimetro ovest della tenuta, sul piazzale antistante la chiesetta campestre di Santo Stefano, anch’essa abbandonata e in attesa di un piano di recupero – ricorda un componente della famiglia, l’avvocato Stefano Pietri Carossini, realizzato nel 1934, nel decennale della sua scomparsa.
Una delle tante leggende che riguardano villa Pietri è quella che la identifica erroneamente come sede amministrativa della miniera di Su Elzu (o Suelzu), distante poche centinaia di metri. In realtà l’edificio è stato utilizzato solo per funzioni abitative, quindi abbandonato a un lento oblio fino ad arrivare ai giorni nostri, nascosto parzialmente dalla vegetazione.
Abbandonata da oltre 50 anni, la villa Pietri mantiene intatto il suo innegabile fascino di stampo ottocentesco. Situata a poche decine di metri dalla strada Ozieri-Pattada, di fronte alla vecchia stazione ferroviaria di Vigne (sulla tratta dismessa di Chilivani-Tirso), vi si accedeva attraverso un caratteristico cancello che si affaccia direttamente sulla carreggiata, opera dell'”artista del ferro” ozierese Giacomo Antonino.
Praticamente invisibile dalle auto, è circondata da un’ampia tenuta in mezzo alla quale emergono alcuni particolari che ci riportano idealmente all’antico splendore, tra cui una vasca ornamentale quasi ai piedi della casa e una piccola fonte-abbeveratoio a pochi metri di distanza.
La struttura è quella di una lussuosa villa a due piani, di stile neoclassico, che la fa vagamente somigliare a un tempio greco. La facciata presenta infatti un portico colonnato ornato da fregi e decorazioni e sopra di esso vi è un piccolo terrazzo. L’interno è parzialmente murato e alcune stanze sono inagibili a causa del crollo del soffitto in legno, che tuttavia è ancora presente in una delle stanze e nel corridoio superiore che conduce al terrazzo. Ben pochi oggetti si sono conservati: una vecchia cucina, diverse bottiglie ancora sistemate in una cantina, una sedia e una cassa di vini della “cantina sociale del Mandrolisai”.
La “leggenda” della miniera di Su Elzu non è l’unica che aleggia su villa Pietri: a Ozieri si raccontano misteriosi aneddoti, storie di fantasmi non meglio precisati, di raduni promiscui finiti con ingloriose fughe a gambe levate in preda al terrore. Dal nostro punto di vista, l’unica presenza che abbiamo avvertito è quella, fastidiosa e infestante, dei rovi che hanno invaso stanze e corridoi una volta sfarzosi.
Ma ciò non toglie che l’inquietudine che trasmette sia ugualmente opprimente: non spettri o entità, quanto piuttosto la ben più concreta certezza del tempo che scorre, dell’impietosa decadenza, del fatto che tutto, anche il palazzo più lussuoso, è destinato a crollare.
Dove si trova: Da Ozieri percorrere la SS 128b in direzione di Pattada per circa 2 Km, fino a uno spiazzo sulla sinistra antistante la chiesetta di S.Stefano. Google Maps
Foto
Com’era
(foto tratte da “Saluti da Ozieri” di Gianfranco Saturno, Il Torchietto Editore, 1993)
Nel solitario e selvaggio scenario della stretta del Muzzone, alle pendici del massiccio del monte Limbara, si erge la diga e centrale idroelettrica del Coghinas, che con i suoi 185 metri di larghezza e 54 di altezza rappresenta una delle più audaci opere di ingegneria della Sardegna del primo ‘900. Costruita tra il 1924 e il 1926 per conto della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso, sotto la direzione degli ingegneri Angelo Omodeo e Luigi Kambo, venne inaugurata ufficialmente un anno più tardi, nel 1927. L’imponente sbarramento, che dà origine al lago Coghinas, è realizzato in calcestruzzo, pietra e muratura.
L’impianto idroelettrico era formato inizialmente da quattro turbine sotterranee “in caverna”, situate a valle della diga a quaranta metri sotto il letto del fiume. Nei primi anni di attività l’energia elettrica e l’ammoniaca prodotte venivano in parte impiegate per l’alimentazione delle fabbriche della Sarda Ammonia di Oschiri.
Quasi novant’anni dopo, il panorama è notevomente cambiato: i sogni e le speranze dell’epoca si sono dovuti confrontare con la crisi dell’industria sarda. La centrale idroelettrica è ancora attiva ma ha perso parte del suo antico prestigio, la Sarda Ammonia ha chiuso i battenti ormai da diversi decenni e anche il vicino villaggio Enel è stato abbandonato.
Un silenzioso testimone di questi cambiamenti è la villa che ospitava il direttore dell’impianto, costruita in contemporanea con la diga e oggi abbandonata, dopo essere stata usata probabilmente come magazzino. La casa, in stile Liberty tipico dell’epoca, si erge sulla sponda orientale della gola e domina dall’alto la centrale e la parte finale dell’invaso, quasi a contemplarli ancora oggi orgogliosamente. Strutturata su tre piani, l’interno è pericolante e i piani superiori sono difficilmente accessibili. Ben poco è rimasto al suo interno, anche se si possono ancora osservare alcune particolari decorazioni che ci riportano idealmente all’epoca della costruzione. Al di sotto del livello stradale vi è un ulteriore sottopiano, adibito a deposito di macchinari, due dei quali sono oggi visibili.
Ma la casa del capo centrale non è il solo testimone della storia industriale del Coghinas. A pochi passi dalla casa del capocentrale, anche se invisibile, c’è il villino che ospitò la famiglia del direttore della Sarda Ammonia.
Foto
DOVE SI TROVA: subito dopo la centrale Enel del Coghinas. L’edificio è pericolante e l’accesso è vietato. Google Maps.
Un misterioso villino nascosto tra i rovi racconta la storia dell’industria chimica sarda
Villino sulla Stretta del Muzzone, lago del Coghinas VAI ALLA GALLERY
Ottant’anni dividono le foto in bianco e nero da quelle a colori pubblicate qui sotto. Ma per capire perché sulla diga del Coghinas si trovi questa costruzione così particolare bisogna prima fare qualche passo indietro.
Nella seconda metà degli anni ’20, con la costruzione dello sbarramento sul lago Coghinas, si venne ad avere un quantitativo di energia elettrica superiore al fabbisogno di una terra così poco industrializzata come era la Sardegna. Pertanto venne l’idea di realizzare concimi chimici di cui aveva gran bisogno l’isola, e magari esportarne l’eccesso nella Penisola.
Il progetto era ambizioso: produrre l’ammoniaca in un apposito stabilimento nel Coghinas, per poi pomparla ad Oschiri dove, in prossimità della stazione ferroviaria, vi sarebbe stato un secondo stabilimento in cui sarebbe avvenuta la produzione vera e propria del concime dopo aver trattato l’ammoniaca. Il cuore di tutto il processo stava proprio in quest’ultimo composto, il cui ottenimento avveniva mediante un innovativo processo brevettato dall’ing. Giacomo Fauser , processo che, data la sua gioventù, necessitava di messa a punto ed ottimizzazione per superare gli inconvenienti tecnici e per fare in modo che la sua resa fosse conveniente su scala industriale
A dirigere lo stabilimento fu chiamato il dott. Guglielmo Fadda, laureato in Chimica all’Università di Cagliari. Egli arrivò al Coghinas, alla fine degli anni 20 avendo un bagaglio di esperienze ancora ridotto, ma nonostante tutto riuscì a risolvere brillantemente una grossa mole di problemi e a tenere abbondantemente testa a due validissimi tecnici come il già citato ing. Fauser e Il dott. Giulio Natta che più tardi diventerà premio Nobel per la chimica. Anzi: proprio quest’ultimo venne spesso al Coghinas per seguire l’evoluzione di quella che era una realtà di primo piano nell’industria chimica italiana, ma che purtroppo scomparve all’alba degli anni ’60.
La prima abitazione a cui venne destinato il dott. Guglielmo Fadda fu proprio il villino di cui ci occupiamo.
Sono passati ottant’anni e il villino è ancora in piedi, sebbene ormai quasi irraggiungibile, nascosto dai rovi e praticamente invisibile. Addirittura si pensava non esistesse più, demolito dalla stessa azione del tempo. A quanto è dato sapere la famiglia soggiornava nella costruzione senza avere la possibilità di usare la corrente elettrica per una stufa, nonostante il freddo consistente e la presenza della centrale a pochi passi che garantiva elettricità gratuita e illimitata.
Non si sa a chi si debba ascrivere la costruzione del villino: forse ad Amerigo Boggio Viola, straordinario impresario biellese che costruì la maggior parte dei fabbricati presenti al Coghinas, piegando alla sua volontà gli aspri versanti rocciosi di questa stupenda zona dell’ Oschirese. Comunque è interessante notare la tecnica costruttiva che prevedeva, a partire dall’esterno, una guaina bituminosa pitturata di bianco (sulla quale sono state applicate delle decorazioni lignee) e un assito di tavole verticali che copre la parete muraria interna.
Rispetto alle foto originarie si nota la presenza di un muro di sostegno retrostante e di una balconata in cemento armato che ha sostituito quella originale in legno. L’intera costruzione è ormai scomparsa tra rami e radici che l’avvolgono e la soffocano come dei serpenti, ma allo stesso tempo sembrano proteggerla come un sarcofago di edera e rovi. Il posto è decisamente troppo difficile da raggiungere per essere colpito dal vandalismo. All’interno si scorgono segni di vita quotidiana del passato: bottiglie di medicinali, letti pieghevoli e, ironia della sorte, sacchi di diserbante della Shell, di quello che veniva usato proprio per combattere le piante infestanti.
(ringraziamo per la collaborazione Antonello Orani)
Foto
DOVE SI TROVA: di fronte all’ultima costruzione – la casa del capocentrale – subito dopo la diga, guardando verso il versante roccioso sovrastante.La struttura è molto difficile da raggiungere e in condizioni statiche assai precarie. Google Maps.
Ex villaggio minerario, oggi è ancora abitato, ma i bellissimi edifici abbandonati sono popolati soprattutto da scritte e sfoghi di ogni genere
Villaggio Normann, Gonnesa
Si trova in uno degli angoli più suggestivi del Sulcis-Iglesiente, sul costone del monte di S.Giovanni, tra pini, palme e macchia mediterranea e il mare a portata di sguardo. E’ Normann, con due enne, minuscola frazione di Gonnesa ed ex villaggio minerario. Qui abitavano i dipendenti della vicina miniera di San Giovanni, un’antica miniera già conosciuta addirittura in epoca romana, dove dal 1867 in poi si iniziò a scavare una vena argentifera. La miniera rimase in attività, tra alti e bassi, fino agli anni 80 del Novecento, quando venne definitivamente abbandonata. A Normann oggi abitano una settantina di persone. Case nuove e molto curate si mescolano ai ruderi che ricordano il passato minerario, un po’ come a Montevecchio o all’Argentiera. Gli edifici interessanti sono soprattutto quattro: la villa Stefani, la villa Pintus, il rudere della chiesa di S.Giovanni all’entrata del paese e lo spaccio aziendale. In particolare nella villa Pintus, quella che sembrerebbe la più recente delle costruzioni abbandonate, hanno trovato spazio sfoghi giovanili e pulsioni infantili e trasgressive di ogni genere, come dimostrano le numerose scritte sui muri. Si va dagli inni a Mussolini, al KKK, a Satana, a Gesù, perfino alla brigate rosse (con una doppia di troppo: “brigatte rosse”), oltre ad insulti personali, poesie, le solite svastiche disegnate male, disegni osceni e disperati appelli all’amore libero. E’ interessante notare come in questi luoghi isolati e abbandonati, a pochi passi dalla civiltà ma comunque al riparo da sguardi indiscreti, il cuore dei giovani del luogo si lasci andare ad ogni genere di espressione, apparentemente senza filtro, in queste stanze che fungono da sfogatoio, dove il confine tra lo scatologico e l’escatologico si fa labile.
Foto
DOVE SI TROVA: nel sud della Sardegna, nel comune di Gonnesa, dopo la miniera di San Giovanni. Superata Bindua seguire le indicazioni per “Normann”. Google Maps.
Una strana villa che sembra un castello, in cima all’isola de La Maddalena. Apparteneva a un ricco inglese, ma qui nel 1943 fu nascosto il prigioniero Benito Mussolini.
C’è chi definì il fascismo un regime da operetta. Un paragone assolutamente ingiusto e irriverente: l’operetta è stata uno dei più grandi generi musicali e teatrali degli ultimi secoli, nel quale anche l’Italia ha avuto le sue eccellenze come il napoletano Carlo Lombardo, autore di Cin Cin La e Scugnizza. Ma prendendo per buono questo paragone, non c’è dubbio che villa Webber fu una delle scenografie adatte al penultimo atto della dittatura di Mussolini.
A vederla oggi si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di falso, come se dietro non ci sia nulla, solo un’improbabile facciata di cartapesta. Ma dopo aver attraversato il bellissimo parco di pini in cui è immersa, dopo aver superato i diversi muri perimetrali che la circondano e aver varcato la porta d’ingresso, si capisce che non ci si trova sul palco di un’operetta: villa Webber esiste davvero. Ed esiste da più di un secolo.
Costruita a fine 800 a La Maddalena, su un promontorio in località Padule, deve il nome al suo primo proprietario, l’inglese James Phillipps Webber. Un personaggio misterioso che fece costruire la villa in un raffinato e oggi un po’ improbabile stile moresco-italiano. Webber visse a La Maddalena per 25 anni, fino alla sua morte. Di lui si disse un po’ di tutto, anche che fosse una spia al servizio di sua maestà la regina. Di certo sappiamo che era un ricco commerciante, amante dell’arte e della cultura, che non si sposò e che morì a Pisa, mentre era in viaggio, all’età di 80 anni. All’interno della villa si trovavano mobili e soprammobili preziosi, dipinti d’autore e una grande collezione di libri (che, si dice, Webber spolverava di persona, non fidandosi dei domestici) e altre antichità che il proprietario mostrava orgoglioso ai suoi ospiti.
La villa fu abitata fino al 1928, poi parte degli arredi furono messi all’asta, finché nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra, venne requisita dallo Stato Regio Italiano. Perché? Per diventare provvisoriamente una prigione per uno dei protagonisti di quella terribile guerra. E’ proprio qui infatti che l’autoproclamatosi Duce Benito Mussolini venne nascosto dal 7 al 27 agosto 1943 (pare nelle due belle stanze a levante, con splendida vista mare) prima di essere trasferito sul Gran Sasso, dove tenterà di suicidarsi tagliandosi le vene, per poi essere liberato dai tedeschi. Ma questa è un’altra storia.
Scale, villa Webber
La storia della villa prosegue anche dopo la permanenza di Mussolini. Una volta abbandonata dalle milizie italiane e dagli 80 carabinieri che circondavano il parco, la villa inizia il suo declino: viene rubato tutto ciò che si può rubare, fino ad essere svuotata. E’ probabile che successivamente sia stata usata per altri scopi, ma l’impressione è che venga lasciata andare a un lento e inesorabile oblio.
Oggi le grandi stanze vuote, gli splendidi pavimenti e i soffitti affrescati, riescono a trasmettere solo una vaga idea del passato splendore. Intorno alla villa si trovano i ruderi di altre costruzioni, probabilmente le abitazioni della servitù, magazzini e stalle.
Sui muri poche scritte, quasi nessuna recente, come se il mondo a villa Webber si fosse fermato qualche decennio fa. Eppure quelle pareti hanno sicuramente corso un rischio: quello di diventare testimoni di un pellegrinaggio di nostalgici del fascismo. Cosa che – se si esclude un solo simbolo neofascista, comunque in compagnia di altri simboli più o meno politici – a quanto pare non è successa, o almeno non ne hanno lasciato traccia.
Tracce che invece hanno lasciato i cinghiali, gli unici oggi a frequentare la villa assieme ai bellissimi gatti della vicina colonia felina e ai maddalenini che hanno voglia di fare una passeggiata in uno degli angoli più suggestivi e meno conosciuti della loro isola. DOVE SI TROVA: a La Maddalena, in località Padule. Precisiamo che si trova in un terreno privato e l’accesso è vietato. Google Maps.
Ecco la villa in una foto d’epoca, probabilmente una sorta di cartolina commemorativa:
Il nostro è un progetto autofinanziato. Sostieni Sardegna Abbandonata con una piccola donazione
La Cupola, uno strano angolo di Paradiso, realizzato dal vulcanico architetto Dante Bini e in passato appartenuto a Michelangelo Antonioni
Cupola realizzata da Dante Bini. Si trova in una proprietà privata e ogni accesso è vietato.
Siamo in Costa Paradiso, nel versante della Gallura meno noto che guarda a occidente. Un enorme villaggio turistico esteso per chilometri, simbolo del turismo d’élite ma anche di speculazione edilizia e stravolgimento del paesaggio. Le costruzioni paiono soffrire questa accusa, e si mimetizzano, sembrano scogli sulla terra: tanto verde, pietra e colori locali, strade che seguono il pendio, un traffico ordinato e tranquillo. Tutto sorvegliato e organizzato anche durante l’inverno, con la manutenzione che non si ferma mai.
Ma qualcosa non si mimetizza affatto. All’estremo settentrionale dell’insediamento, al termine di un dedalo di vie con davanti solo la macchia e il golfo dell’Asinara, due oggetti non identificati spiccano nel contesto, dalla strada come dal satellite. Due cupole di cemento che ricordano un’esposizione internazionale o una metropoli futuristica, ma sono atterrate in un villaggio turistico mediterraneo. A vederle così grigie, trascurate e vuote, si pensa subito a un ecomostro, persino a un abuso, qualcuno invocherebbe le ruspe magari davanti alle telecamere. E allora come mai quest’opera dimenticata è ancora studiata nelle università di tutta Europa, e persino i giornali stranieri ne denunciano la rovina?
Perché la grande villa era dell’acclamato regista ferrarese Michelangelo Antonioni. E non ha mai cercato di nascondersi, perché rappresentava il progresso e fu costruita, per impressionare e conquistare la sua compagna Monica Vitti, dal vulcanico Dante Bini, giustamente noto come l’architetto delle bocce o l’architetto delle piramidi.
Si tratta di una tecnica costruttiva estremamente innovativa per l’epoca dei ruggenti anni sessanta, e ancora in uso: il Binishell. Questa cupola, come la sorella più piccola costruita affianco, è sorta in brevissimo tempo grazie a un’unica gettata di cemento armato, letteralmente gonfiata e sollevata dalla pressione dell’aria al suo interno. Quando il cemento si solidifica, si bucano le pareti ritagliando le aperture desiderate, e il più è fatto, quasi sempre senza rischi. Per la Costa Paradiso furono anni di jet-set: pittori, artisti ed editori, ma soprattuto attori e registi. Dal film del ‘64 dello stesso Antonioni, il Deserto Rosso girato nella vicina Budelli che gli fece scoprire l’impresario e proprietario, a Black Stallion prodotto nel ‘79 da Francis Ford Coppola. Dalla villa due sentieri ricavati nella roccia conducono al mare e a un piccolo stagno, conche e torrenti, addirittura un piccolo fiordo e un’isoletta, segno di una natura ancora stupenda anche se calpestata, specie nel passato.
Ma le relazioni finiscono, nel mondo dello spettacolo spesso bruscamente: ex e amanti rimasero ancora per alcuni anni in Costa Paradiso vivendo nelle case vicine, poi partirono tutti. La villa-cupola ovoidale, casa a uovo o cupola di Antonioni fra i tanti nomi che ha ricevuto, passò di mano in mano e lentamente iniziò il suo declino. Lentamente gli infissi si scheggiano e spezzano, i ferri del cemento armato si scoprono, le piante crescono floride, dal ruvido intonaco sbuca la pelle aliena.
Oggi la villa ha dei proprietari ed è vietato entrare al suo interno, ma solo ammirarla da fuori nel rispetto della privacy e della proprietà privata.
Dove si trova: nord della Sardegna, più precisamente Costa Paradiso, sul mare. Non si può visitare: si trova in una proprietà privata e sconsigliamo assolutamente ogni trasgressione. Google maps.
Il lago Omodeo è uno scrigno che sotto l’acqua nasconde vari tesori: tombe di giganti, domus de janas, un insediamento prenuragico, una foresta tropicale fossile con alberi di 20 milioni di anni, ossa di animali estinti, i resti di un paese ricostruito altrove e anche una casa a due piani che appare e scompare a seconda del livello dell’acqua. Sembra che questo edificio non voglia abbandonare del tutto la superficie, anche se il suo tempo è passato da un pezzo ed è legato alla storia della vecchia diga di Santa Chiara. Che comincia circa un secolo fa.
Nel 1917 iniziano i lavori che porteranno alla realizzazione di quello che per decenni sarà considerato il più grande lago artificiale d’Europa. La progettazione è affidata all’ingegnere Angelo Omodeo, colui che darà il nome al lago, e la costruzione all’ing. Giulio Dolcetta. Noi forse avremmo preferito Lago Dolcetta, ma non facciamo polemiche. Comunque nel vicino villaggio di Santa Chiara c’erano sia via Omodeo sia piazza Dolcetta, quindi va bene così.
Lo scopo di questa importante opera era quello di produrre energia elettrica e di sfruttare le acque del fiume Tirso per l’irrigazione del Campidano. Ma prima di iniziare i lavori, c’era un problema da risolvere: Zuri, un piccolo borgo di circa venti case che si trovava a 88 metri sul livello del mare, mentre l’acqua del lago sarebbe arrivata a 105 metri. Fatti due calcoli, Zuri sarebbe annegato. Quindi, per evitare che Zuri diventasse la piccola Atlantide dell’Omodeo, ancora prima dell’inizio dei lavori ufficiali si procedette alla demolizione dell’abitato.
Ci volle quasi un mese per buttare giù le case (i cui resti, in parte, dovrebbero trovarsi ancora là sotto) per poi ricostruirle in una altura vicina, al sicuro, e qualche anno in più per risolvere un altro problema: la chiesetta romanica del 1291. Per quanto l’idea di una chiesa sommersa sia sempre suggestiva, si decide di smontarla e rimontarla mattone per mattone, un processo che si chiama anastilosi (qui una foto della chiesa prima e dopo), e oggi potete ammirarla all’entrata del piccolo borgo in tutta la sua integrità.
Risolto il problema Zuri, i lavori della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche sul Tirso vanno avanti fino al 1923, e nell’aprile del 1924 ci fu l’inaugurazione ufficiale della diga con tanto di visita del re.
A valle della diga venne costruita la centrale idroelettrica, e grazie ad essa Ulà Tirso fu il primo paese della Sardegna ad avere l’energia elettrica. All’epoca, e per molto tempo, l’Omodeo era il lago artificiale più grande d’Europa, come tutti i bambini sardi, per decenni, hanno imparato a memoria sui libri di scuola.
Ma arrivò per la vecchia diga il momento di andare in pensione: nel 1997 venne inaugurata la nuova diga, più alta e dal bacino più capiente, che comportò un innalzamento del livello dell’acqua. Così la valle venne sommersa e tutto, animali estinti, foresta tropicale, resti di Zuri, sparì per sempre sotto l’acqua. O quasi. Ogni tanto, quando il livello dell’acqua cala, viene fuori il passato: la foresta pietrificata, qualche nuraghe, pali della luce e anche quella che viene chiamata la casa del capocentrale o da alcuni “casa del custode”.
In realtà in questa casa erano ospitati il capocentrale, il vicecapo e le loro famiglie. Si trova proprio sotto la vecchia diga, di fronte al ponte che la sovrasta. Dall’alto gli automobilisti probabilmente non notano nulla, anche perché per buona parte dell’anno l’edificio è quasi del tutto coperto dall’acqua. Era una bella villa a due piani circondata da un giardino con un laghetto, un frutteto, delle palme e un banano. L’edificio era costituito da due appartamenti perfettamente simmetrici: al piano terra la cucina con camino, un salone, un piccolo soggiorno e uno stanzino dov’era posizionato il telefono (collegato con la centrale del Tirso); al secondo piano quattro camere da letto e il bagno, e sopra un sottotetto.
In questa casa nacquero due bambine: Antonia Tilocca, figlia dell’allora capo centrale Proto Tilocca, nata nel 1930 e Lucia Pisano, figlia del vice capocentrale, nata nel 1940. Facciamo i nomi perché possiamo mostrare anche i volti della famiglia Tilocca (grazie al figlio di Antonia, Ivan, che ringraziamo) in queste bellissime fotografie che documentano la vita alla diga in quel periodo e anche i danni provocati dai siluri che colpirono la diga nel 1941 (su tre due andarono a segno, uno si fermò per un guasto all’elica) e dalle bombe del 1943. Ebbene sì, alla diga si giocava anche a tennis!
Sul fronte opposto rispetto alla casa del capocentrale, più in alto e quindi non scomparsa sotto l’acqua, si trova un altro edificio, oggi decisamente vandalizzato, che in passato ospitava i carabinieri di Ulà Tirso e successivamente i custodi della diga. Dopo l’incidente del Vajont del 1963 le misure dei sicurezza nelle dighe aumentarono. I custodi della diga Santa Chiara facevano 3 turni da 8 ore per coprire l’intera giornata ed effettuare quotidianamente i controlli di sicurezza.
E’ anche per questo che ogni mattina alle 10 in tutte le zone a rischio (praticamente tutto l’oristanese) suonavano le sirene usate in precedenza solo durante la Seconda guerra mondiale: era un test che aveva il significato di “è tutto ok”. Se le sirene avessero suonato in un altro orario avrebbe significato che era successo qualcosa alla diga e che i paesi vicini al Tirso andavano immediatamente evacuati. Sulla storia della diga e del suo inabissamento esiste un bel documentario di Franco Taviani, “Adiosu diga addio”, da non confondersi con il nostro Adiosu. Dove si trova: lago Omodeo, non lontano da lì c’è anche il villaggio di Santa Chiara, dove vivevano i dipendenti della Società Elettrica Sarda. Google Maps.
Foto
Il nostro è un progetto autofinanziato. Sostieni Sardegna Abbandonata con una piccola donazione
Una villa e un’azienda abbandonate da oltre 35 anni, resti della storia di una famiglia di imprenditori
Il Coghinas si conferma l’alfa e omega dell’abbandono sardo: acque poco frequentate, che dalle sorgenti alla foce segnano le memorie di un pionieristico passato ingiustamente dimenticato.
Siamo nel centro di Valledoria, nella frazione capoluogo di Codaruina. Poco lontano dall’estuario si nascondono qui in Anglona i resti delle fabbriche che per un secolo hanno portato fortuna e celebrità alla famiglia Stangoni. Furono una casata di brillanti imprenditori di origini corse provenienti da Aggius, che nel 1880 si stabilirono nella bassa valle del Coghinas dopo avervi individuato un possibile terreno di sviluppo, dove il suocero anni prima aveva costruito una cascina alle porte del paese.
Il giovane capo-famiglia, Pier Felice, professore di Diritto e Legislazione rurale, riuscì coraggiosamente a intravedere delle potenzialità di sviluppo in questa zona da sempre paludosa, malarica e soggetta a frequenti alluvioni. Acquistò quindi numerosi ettari di terreno agricolo e vi ampliò la cascina già presente.
La sua parabola si concluse tragicamente il giorno di Ferragosto del 1904: mentre tornava dalla spiaggia fu ucciso davanti ai suoi due figli Arnaldo e Alberto Mario, forse per rivalità da altri possidenti.
Ma gli orfani dell’imprenditore non si persero d’animo: dopo aver trascorso l’infanzia in un collegio fiorentino e conosciuto le atrocità del primo conflitto mondiale, tornarono a Valledoria nel 1920. Qui ripresero in mano l’attività paterna potenziando le mansioni agricole e avviando estesi lavori di bonifica.
Il paese crebbe spinto dalle opportunità di lavoro per la popolazione dei dintorni, passando in pochi decenni dalla ventina di abitanti iniziali ad alcune centinaia. Grazie ai finanziamenti di un’industria toscana del tabacco ora in stretta alleanza, e al coinvolgimento di un architetto belga, vicino alla cascina vennero erette una sontuosa villa liberty e la chiesetta di san Giuseppe, facente parte del terreno padronale.
Giunse il secondo dopoguerra, periodo di massima attività dei fratelli Stangoni, che ormai controllavano un piccolo impero economico fondato sulla manifattura del tabacco e soprattutto sulla produzione industriale di carciofi, pomodori e grano, di cui erano i principali coltivatori dell’Anglona. In particolare, nel 1946 venne costruita all’altro capo del paese la “fabbrica Stangoni”, concepita per l’inscatolamento di pomodori pelati. Quattro anni più tardi nacque il Consorzio di Bonifica della Bassa Valle del Coghinas, il cui cuore era proprio la “Azienda agricola F.lli Stangoni – Codaruina”, che ormai commerciava in tutta l’isola e riceveva continue visite di consulenti della penisola, fortemente interessati al dinamico aspetto gestionale.
Contro le aspettative, il seguente boom economico e l’allargarsi del mercato colpirono mortalmente la piccola realtà territoriale e il sogno degli Stangoni, la cui attività produttiva si spense gradualmente. Già negli anni ’60 l’azienda Stangoni chiuse i battenti e venne abbandonata, e nel 1980 la bellissima villa subì la stessa sorte, pochi anni dopo la morte dei fratelli. Alcuni volantini disseminati al suo interno lasciano intendere che, nell’ultimo periodo, l’edificio fu utilizzato a fini turistici come albergo e agriturismo, con tanto di scuola di equitazione e di volo con deltaplani, l’ultimo improbabile colpo di coda prima dell’oblio.
Oggi la villa Stangoni riesce a trasmettere ancora il suo fascino, imponente, inquietante e vagamente spettrale. Ma allo stesso tempo è una bizzarra commistione di stili, con esterni liberty in un cortile da scuderia, alcune stanze con aspetti caratteristici di inizio secolo e altre con motivi e struttura tipicamente anni ‘70.
Davanti a lei solo infinite distese di pungenti carciofi, il nuovo oro verde del Coghinas.
Dove si trova: nord Sardegna, subito fuori da Valledoria, lungo la SP33. Google Maps.
Nelle colline della Marmilla, fra le strette viuzze e le austere abitazioni del centro di Villanovafranca, appare un po’ nascosta dall’alto muro di cinta la nobiliare Casa Santa Cruz.
Estesa per un quarto di ettaro, copre un intero isolato del paese con tre grandi cortili. È sufficiente osservare la villa dall’alto per notare la sproporzione con le altre dimore, riflesso del divario economico tra i notabili e il resto del paese.
Costruita verso il 1916 (data riportata in chiave di volta sul portale) e abbandonata a metà degli anni ’60, la casa oggi è di proprietà del Comune, al quale è stata donata nel 2013 dall’ultimo proprietario Evangelino Cau dedicandola “alla memoria di Donna Amalia Paderi Santa Cruz”.
Oggi appare suggestiva e spettrale, con i suoi grandi ambienti vuoti divisi da corridoi e porte. Ma c’è un dettaglio che, insieme alle dimensioni, fa intuire a quale agio e ricchezza fosse legata la storia di questa residenza. Sono le decorazioni, ancora oggi perfettamente conservate fra l’intonaco scrostato: possiamo vederle come nelle vecchie foto delle stanze, all’epoca arredate con divani, tende, drappi, lampadari in cristallo, specchi e pianoforte.
La villa com’era un tempo. Foto tratte da “Villanovafranca, storia cultura e tradizioni”, Edizioni Nuove Grafiche Puddu
Se da fuori questa può apparire come la tipica casa rurale, sebbene grande e sviluppata su due piani, all’interno ricorda più un signorile appartamento di città. Non solo le decorazioni presenti quasi ovunque, perfino sotto la bellissima scala con passamano in legno e grata in ferro decorata: ma anche i pavimenti, o il bagno con la vasca, in aggiunta a quello esterno come si usava un tempo.
I suoi padroni erano Don Terenzio Santa Cruz Gessa (1880-1967) e Donna Amalia Santa Cruz Paderi. Il cognome Santa Cruz appare in Sardegna dalla fine del 1400 ed è chiaramente di origine spagnola, stante per “Santa Croce”. È tuttora presente in altri comuni del Campidano.
Sul cortile si affaccia la facciata principale della villa. Il piano terra era la zona giorno, con salotti e stanze di rappresentanza, lo studio privato del capofamiglia, che pare ospitasse una cassaforte ora scomparsa. Il piano superiore era la zona notte, con le camere matrimoniali e altri alloggi.
Oltre al loggiato, intorno al nucleo principale osserviamo i resti degli ambienti utili alle attività quotidiane, come: rimessa per macchina e calesse, carbonaia, forno da pane, magazzini per provviste e macchinari, cantina del vino e un frantoio nel giardino posteriore.
Quelli erano tempi difficili, tempi violenti, fra la gente e nello Stato. Non sappiamo con precisione quali fossero i rapporti tra la famiglia Santa Cruz e il resto del paese. Ci limitiamo a riportare un piccolo episodio, non sappiamo quanto significativo, avvenuto durante il ventennio, quando Don Terenzio era il Podestà di Villanovafranca:
15 novembre 1937 – Villanovafranca – Telegramma: fucilate contro il podestà. Tredici corrente ore venti a due chilometri abitato Villanovafranca (Cagliari) scopo vendetta vennero esplosi quattro fucilate contro Santacruz Terenzio anni cinquanta podestà predetto comune et figlio Paolo anni 19 facoltosi proprietari che trovavansi bordo loro automobile riportando leggere ferite rispettivamente guaribili giorni dieci et sette punto Proceduto arresto Marras Emanuele anni 27 pastore residente Villanovafranca sul quale pesano gravi indizi punto Indagini continuano punto Escludesi movente politico. Pel Tenente Maresciallo SINI U.P.G. Da Le élites politiche in Sardegna nel ventennio fascista, Giangiacomo Orrù, CUEC
Oggi, ufficialmente abbandonata, la casa Santa Cruz è una delle poche notevoli ville abbandonate in Sardegna, che non abbondano nell’isola, a differenza di quanto accade in altre regioni italiane, e ci parla di un passato non così lontano e della piccola nobiltà sarda. Ma soprattutto questa villa ci parla di noi: giovani ereditieri desiderosi d’abbandonare le angusta mura familiari, e vecchi nostalgici che prima di spegnersi vogliono saldare il proprio debito con la comunità d’origine.
Ma parla anche di sbandati dall’etica personale, che ne usavano i cortili per la coltivazione della marijuana, e di amministrazioni in difficoltà: povere di mezzi e risorse che devono accontentarsi, almeno per il momento, di restaurare il muro di cinta di questo gioiello, mettendola “in sicurezza”.
E così resta questa casa, quella villa: cinta da mura di dignitoso decoro, al sicuro dal mondo esterno, ma ormai vuota di ogni umanità, affetto e prospettiva. Nelle grandi stanze e nei lunghi corridoi di Casa Terenzio Santa Cruz nessuno sentirà più l’eco delle note del pianoforte.
Dove si trova: fra le vie Galilei, Vittorio Emanuele II e Satta, e le piazze Eleonora d’Arborea e Italia a Villanovafranca (SU). Inutile dirlo, ma lo diciamo, la villa è chiusa e l’accesso è vietato. Google Maps.
(ringraziamo per la collaborazione e le fonti Simone Sanna)
Villa Ginestra, o Villa Idina: dove i signori Brassey prendevano il tè delle cinque.
La casa; anzi: la villa. L’obiettivo di ogni famiglia, il porto sicuro, l’assicurazione sull’avvenire dei propri figli e dei loro discendenti. Perché una volta che le mura sono state erette e le porte chiuse, niente e nessuno oserà profanare la proprietà privata; nessun erede potrà mai abbandonare il sacro focolare del fondatore della dinastia. Fatto questo, si sa come vanno la cose e quanto sia turbolento e crudele il mondo, e quindi meglio stipulare più assicurazioni sulla vita costruendo più case.
Infatti, qui nella Villa Idina o Villa Ginestra, le cose sono andate un po’ diversamente. A Pitzinurri, mezzo chilometro a sud-est da Ingurtosu, risiedeva durante le trasferte di lavoro della Pertusola Mining Limited Company il nobile britannico Thomas Alnutt, Conte di Brassey e Visconte di Hythe.
Questa splendida villa liberty di tre piani dedicata alla moglie Lady Idina Nevill Maria venne costruita all’inizio del Novecento e godeva di ogni comodità – esistente all’epoca- per la coppia, fra cui un tetto vetrato, ora ovviamente scheletrico.
Le cronache parlano del nobiluomo come un imprenditore benvoluto e innovatore, ma ciò non gli impedì di morire nel 1919 investito da un taxi a Westminster: senza eredi e discendenti, si estinse il casato e venne abbandonata anche questa nobile dimora.
Oggi, pur essendo ridotta quasi a uno scheletro, la villa appare ancora imponente; ma non è niente rispetto alla magnificenza del passato, osservabile nelle vecchie fotografie. Due terrazze, un grande giardino, le cantine, un garage e soprattutto un bel panorama sulle colline verdi fino alla costa di Piscinas.
Villa Ginestra (o Villa Idina) com’era in passato
Anche qua, come altrove (vedi Villaggio Righi a Montevecchio), sono evidenti le differenze nella scelta della posizione delle case dei minatori e quelle dei padroni. I primi in palazzi formati da piccoli appartamenti il più vicino possibile al posto di lavoro, i secondi non troppo lontano, ma in ville lussuose con una bella vista sul mare. Così è.
Dove si trova: oltre Ingurtosu, verso la zona del villaggio Pitzinurri (nei pressi c’è anche il villino Wright, casa del vicedirettore della miniera, oggi abitata), su una collina raggiungibile a piedi da un breve tratto di sterrato. Google Maps.
Villa Idina, 1914. Fotografia di gruppo dei soci dell’AMS nel 1914. Si riconoscono seduti da sinistra: A. Peloggio, T. H. Brassey, Giorgio Asproni, L. Henrotin. In piedi, seconda fila: C. E. Borghesan, A. Ferrari, L. Testa, G. Pavan, A. Racah. Terza fila: P. Stefani, A. Binetti (Associazione mineraria sarda)
Il nostro è un progetto autofinanziato. Sostieni Sardegna Abbandonata con una piccola donazione
Un misterioso edificio testimone del passato industriale del Coghinas
Al tramonto, osservandolo da lontano, appare come uno strano scheletro rosa. Secondo le carte IGM si tratta della “cantoniera Pedredu”, che si trova però di fronte a questo strano edificio. Noi, nel dubbio, abbiamo deciso di chiamarlo villa del ponte Diana, perché è certo che questo edificio abbandonato è legato alla storia del ponte.
Villa ponte Diana, località Pedredu (Oschiri)
Il ponte Dìana oggi sembra un viadotto come tanti, ma a un occhio più attento svela numerosi particolari che ci riportano agli albori dell’industrializzazione della Sardegna. Opera imponente e ambiziosa, costruita nel 1925 dagli ingegneri Faconti e Perotti (ma non è chiaro perché il suo nome sia stato sempre associato a tale Dìana), permetteva di superare la valle del fiume Coghinas costituendo il punto cardine dell’allora trafficata strada Oschiri-Tempio: un tortuoso tragitto di oltre 30 chilometri, armonicamente districatosi tra le solitarie foreste del massiccio del monte Limbara.
La struttura del ponte è costituita da otto piloni e un grande arco centrale. Dopo la successiva realizzazione della diga del Coghinas la sua austerità appare oggi molto meno apprezzabile, a causa del livello dell’acqua che lo sommerge fino a pochi metri dal piano stradale.
Ma le storie del ponte e della diga sono intimamente connesse tra loro: un’opera così importante era stata pensata proprio in vista della realizzazione della diga situata a pochi chilometri di distanza. Il ponte Diana facilitava il trasporto dei materiali necessari per la sua costruzione, agevolandola e abbreviandone i tempi. Inoltre nella struttura sono inserite le tubazioni che portavano l’ammoniaca prodotta nella centrale idroelettrica direttamente allo stabilimento della Sarda Ammonia di Oschiri.
La complessità del progetto rese necessaria la presenza e l’alloggiamento stabile dell’equipe direttiva per il monitoraggio dei lavori. Per tale motivo, venne realizzata la grande villa in stile Liberty sulla collina che domina il ponte, in località denominata Pedredu. Oggi restano solo i ruderi, ma ciò che che colpisce è la sua struttura bizzarra e allo stesso tempo sfarzosa, completamente diversa dalle innumerevoli case cantoniere disseminate sul territorio sardo.
Costruita su tre piani, con un livello interrato, tutto il contorno superiore è ornato da un fregio, che forse è l’elemento che più di ogni altro rende caratteristico questo edificio. Le condizioni in cui versa sono precarie, quello che rimane è poco più di uno scheletro: la struttura esterna sembra ancora reggere allo scorrere del tempo, ma non c’è più traccia di infissi e i piani superiori risultano inaccessibili per il crollo delle scale.
Purtroppo non conosciamo altri particolari sulla storia di questo edificio dal fascino misterioso, e soprattutto sul motivo di tanto sfarzo per quella che ipotizziamo fosse una costruzione di utilizzo temporaneo. Non è noto se nelle intenzioni dei costruttori sarebbe dovuta diventare qualcosa di più, ad esempio una residenza fissa: sappiamo solo che verso la fine degli anni ’30 la villa era abbandonata già da diverso tempo.
Altri due piccoli edifici caratterizzano l’area di Pedredu: il primo è quello che rimane della vecchia stazione di pompaggio dell’ammoniaca, oggi utilizzata come rifugio per animali da pascolo. E’ ancora possibile seguire il percorso delle tubature che, fuoriuscite dal ponte Diana, si snodano tra la vegetazione e proseguono in direzione di Oschiri. Il secondo edificio è la “cantoniera ponte”, abbandonata più tardi rispetto alla villa, dove risiedeva il custode della stazione di pompaggio con la famiglia.
Aggiornamento 2015, riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Ho letto la vostra recensione sulla casa in stile liberty presso il ponte Diana, io sono cresciuta nella Frazione di San Leonardo a pochi chilometri dal ponte verso Tempio, ma in comune di Oschiri. La mia famiglia proviene da quelle terre da generazioni, mia nonna che è deceduta due anni fa, mi ha raccontato molte cose sulla villa di cui parlate. La villa fu costruita per allogare l’Ingegner Ravera e la sua famiglia, lui lavorava come direttore al della Sarda Ammonia , e come avete detto voi sotto il ponte passano i tubi che univano lo stabilimento del Coghinas con quello alla stazione dei treni di Oschiri ,la casa cantoniera che c’è di fianco non ha niente a che vedere con la villa. L’ingenier Ravera aveva due figli,Ada la maggiore era maestra e insegnava alla scuola elementare di san Leonardo dal 1931 fino al 36, non so se sia rimata fino al ’39, la suola era situata nella casa di mio bisnonno Salvatore Ledda, che aveva affiatato una stanza alla scuola e l’altra alla maestra, tranne negli anni della signiorina Ravera che viveva al ponte, la scuola aveva aperto nel 1930, e dopo che andò via la maestra Ravera l’insegnante tornò ad abitare lì. Mia nonna era nata nel 1921 e si ricordava bene la signorina Ravera, una giovane donna fortemente patriottica e devota al fascismo, Tanto che quando il fratello Ezio, morì durante la guerra di Spagna combattendo con Franco, si recò a scuola e volle festeggiare la morte del fratello perché “da oggi l’Italia ha un eroe in più.” Mia nonna ricordava sempre il giorno in cui furono invitati a casa della signorina sul lago, fecero una gita, e la cosa che la colpì di più fu il grammofono, passarono la giornata ad ascoltare musica e poi fecero merenda nel bellissimo giardino che circondava la villa. Mia nonna mi disse che l’interno della casa era arredato con gusto, vi erano lampadari di cristallo, vetrine contenenti porcellane, sofà e poltroncine (nelle case della zona erano rarissimi, appannaggio dei più ricchi), tavolini con sopra centri ricamati dalle signore di casa. La famiglia rimase lì fino alla fine degli anni ’30, poi si trasferirono e i successori alla Sarda Ammonia non abitarono più lì ma nella villa presso la stazione, da allora la casa è disabitata e piano piano è andata in rovina.
cordiali saluti Prof.ssa Aura Schintu
Dove si trova: all’inizio del ponte Diana in direzione Tempio Pausania, sul lago Coghinas, lungo la SS 597. Google Maps
Indovinate? In mezzo al nulla c’è qualcosa.
Ad esempio una nobile e bizzarra baita.
In quel di Padria (SS) lungo la Strada Provinciale 11, immersa nel verde e nelle rocce scavate dalla Storia di Puntas Biancas, appare ai viaggiatori una misteriosa baita futurista con le finestre decorate da pucciosi cuoricini, ma dalle forme metalliche che accelerano nel futuro.
Un avamposto pensato per durare e fungere da base sicura per le esplorazioni umane, proprio come i pannelli di eternit. Davanti, una fontana che affastella membra spezzate e scomposte di quella che fu una statua da giardino.
Intorno un delicato filo spinato, misteriosi menhir dal volto umano e una recinzione integralmente arrugginita più che ricordarci qualcosa, ci confondono sull’attuale status dalla pregevole costruzione.
Le fonti digitali l’attribuiscono a Don Vittorio Boyl, Marchese di Putifigari, scomparso nel 2011. Venne edificata negli anni ’70 per valorizzare la raccolta di piante e minerali, insieme all’omonima riserva e al delizioso laghetto antistante, scolpito a mano.
Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 11 a Padria (SS). Google Maps.
Le Case Oredda, attestate anche come C. Raimondi, sono oggi solo un toponimo dello sterminato agro di Sassari, nei pressi della mal nata zona industriale di Truncu Reale e della regione Saltareddu. Eppure ancora oggi i suoi resti bastano a raccontare quella che fu una fiorente azienda agricola con decine di lavoratori, tanto da regalare la suggestione di un piccolo villaggio.
Non sappiamo se qualcuno degli abitanti sia sopravvissuto, ma di certo troverebbe irriconoscibili le sue campagne: attraversate da tralicci dell’alta tensione e superstrade a quattro corsie, dominate da industrie del riciclo e da un carcere fortezza. Dei tanti animali che avranno popolato la tenuta neanche l’ombra, sostituiti dalla forza della macchine o chiusi nei capannoni. Ma del resto se tornassero tra qualche anno ancora, andrebbe ancora peggio: potrebbero non trovare nemmeno più umani, sostituiti dai robot e dalla piena automazione anche qui, nella periferia dell’impero.
Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 132, in un tratto parallelo alla Strada Statale 131 Carlo Felice, in località Truncu Reale a Sassari. Google Maps.
“Ga è drentu è drentu, ga è fora è fora!” (“Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori!”): così, ogni sera alle ore 20, gridava il guardiano delle vecchie mura che cingevano la città di Sassari, prima di chiudere le sue cinque porte isolandola per la notte dal resto del mondo, fino al mattino successivo.
È facile quindi immaginare che, dal Medioevo fino alla seconda metà del XIX secolo, epoca dell’abbattimento della cinta muraria, lo stato delle strade e dei trasporti non sempre permetteva a viandanti, commercianti e sassaresi residenti di giungere in città in tempo per questo annuncio. Col progressivo fiorire dei traffici e dell’importanza del capoluogo turritano, restare chiusi fuori da Sassari iniziò a diventare un bel problema.
E qui inizia la nostra storia: nella Valle del Rosello, a poca distanza dall’omonima fontana e dalla Porta Mercato, uno degli accessi alla città più frequentati, delle locande poste fra le attuali via Sorso e viale San Francesco sembravano venire incontro alle esigenze di faccendieri e ritardatari. Ospitando così dietro pagamento chi non intendeva passare la notte all’addiaccio nell’umidità che da sempre caratterizza l’Eba Giara, e potendo nel frattempo ammirare i bei frutteti vallivi del barone Domenico Giordano.
Coincidenza volle che fu proprio un altro locandiere, Tommaso Boarelli, tenutario dell’albergo Italia in piazza Azuni, a concepire e realizzare questa villa lungo la vecchia strada per Sorso. Costruita a fine Ottocento con grande arguzia, in una complessa tenuta che includeva frutteti e anche un terreno allora immondezzaio cittadino, portò grande sollievo alla municipalità, nonché decoro all’intera valle. Era dotata di tutte le comodità: tre piani, 340 metri quadri suddivisi tra zona padronale e servitù, affreschi, pavimenti robusti, grandi caminetti, soffitti a volta, fontana interna, cantine, stalle per i cavalli e ampio podere adiacente.
Nel 1932 venne realizzato il possente Ponte Rosello che slanciò sì la città nella sua espansione verso il mare, ma offuscò anche la villa che ormai si trovava sotto lo sguardo dei passanti. Nel dopoguerra fu quindi acquistata e abitata per alcuni decenni dalla famiglia Pusino, i cui discendenti sono tuttora proprietari in attesa di una riqualificazione che sembra non arrivare mai.
Per lungo tempo ostaggio di ladri (12 furti in altrettanti anni) e in posizione tragicamente privilegiata per i frequenti suicidi che si susseguono ancora oggi dal sovrastante ponte Rosello, la villa è stata abbandonata, murata con i suoi ricordi ed esclusa forse per sempre dal mondo esterno. Tutto intorno, un tappeto di siringhe insidia i rarissimi passanti che si avventurano per le vecchie scale di via Palmaera, anch’esse faticosamente costruite a suo tempo col contributo dei proprietari.
Ormai dimenticata e decadente nonostante la solidità della costruzione, villa Pusino resta invisibile mentre in alto il traffico del ponte Rosello scorre da e verso Sassari città aperta. Proprio il ponte, deviando e sopraelevando il transito, ha contribuito a far precipitare la villa nell’oblio e nell’oscurità, mantenendola all’ombra dei suoi piloni anche alla luce del giorno, come nell’inquietante L’empire des lumières di René Magritte.
(si ringrazia A. Ponzeletti per la consulenza)
Dove si trova: in via Palmaera, sotto il ponte Rosello, a Sassari (SS). Google Maps
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di Caprera
Spesso girano tante leggende intorno ai posti abbandonati, ancora di più quando si tratta di ville. Fantasmi, morti, misteriose presenze o semplici dicerie gettano un’aura di inquietudine che aleggia su questi luoghi, sia per la suggestione dovuta a fantasie popolari, sia per una sottile ma non trascurabile sensazione di paura ancestrale che trasmettono.
Lo staff di Sardegna Abbandonata, noto simpatizzante del CICAP, ha comunque un cuore e, pur rifuggendo da ectoplasmi o leggende metropolitane, non resta insensibile al cosiddetto fascino dell’ignoto, più che altro per il gusto dell’assurdo.
Stavolta, tuttavia, non si parla di fantasmi ma di storie d’amore tra illustri personaggi storici. Ci è comunque impossibile rimanere con i piedi per terra, se non altro perché per raggiungere la nostra destinazione dobbiamo necessariamente prendere il battello e attraversare il braccio di mare che ci separa dall’isola di La Maddalena.
Stretta in un improbabile contrasto fra un mare da sogno e un depuratore, nel Passo della Moneta, punto di transito per la vicina Caprera, si trova una villetta ottocentesca che per anni ha alimentato leggende, dicerie e ammiccanti pettegolezzi vintage.
Torniamo un po’ indietro: prima di essere invaso dai turisti, l’Arcipelago di La Maddalena, una manciata di isole a poche bracciate dalla Costa Smeralda, è stato un piccolo crocevia della Storia. Per la sua posizione strategica ha richiamato Eserciti e Marine Militari di mezzo mondo: Savoia, inglesi, francesi, tedeschi e infine statunitensi, oltre a una folta schiera di personalità tra cui Horatio Nelson e Giuseppe Garibaldi, quest’ultimo notoriamente ritiratosi nell’isola di Caprera.
In questo convulso vortice di eventi, i volti noti dell’epoca si intrecciano con quelli meno noti. Oltre a uomini d’arme, nell’Ottocento l’Arcipelago ha attratto a sé parecchi esponenti della classe agiata britannica, tra cui James Phillips Webber, Daniel Roberts e Maria Esperance von Schwartz, per periodi più o meno lunghi.
Nella discrezione di questa piccola ma influente comunità di immigrati, ricca di personalità originali ma spesso tendenti all’eremitaggio, hanno lasciato il segno anche i coniugi Collins: sbarcati intorno al 1832, Richard ed Emma Claire Collins si stabilirono inizialmente in una cadente casupola del centro di La Maddalena, quindi, pochi anni più tardi, comprarono un terreno a Punta Moneta, di fronte all’isola di Caprera, costruendo uno spartano villino in stile moresco. Dieci anni dopo il loro arrivo, acquisirono inoltre numerosi terreni demaniali proprio a Caprera.
Furono una coppia anomala per le rigide convenzioni dell’epoca, con tutti i connotati della classica fuga d’amore: lei giovane rampolla di una casa nobiliare, dai modi gentili e dedita alla floricoltura, lui rozzo scudiero, alcolizzato, silenzioso e patito di caccia, pesca e agricoltura. Caratterizzati da una forte riservatezza, non ebbero mai figli e, nonostante le differenze caratteriali, vivevano in silenziosa simbiosi e rifiutarono garbatamente di assumere domestici, giardinieri o contadini. Addirittura “pare che per vent’anni nessuno abbia visto la signora Collins per le strade di La Maddalena”. Appartata di fronte al mare e lontana dal centro abitato, casa Collins con suoi due proprietari venne inizialmente risparmiata dai pettegolezzi popolari.
Nel 1855 Giuseppe Garibaldi, già vedovo, si stabilì a Caprera, prendendo possesso di terreni confinanti con quelli dei Collins, e non mancarono i diverbi con Richard per questioni legate al bestiame. Mentre i rapporti tra lui e l’Eroe dei Due Mondi si incrinarono rapidamente, Emma mantenne sempre buone relazioni con quest’ultimo. Nove anni più tardi, nel 1864, Emma rimase anche lei vedova, mantenendosi devota al marito al punto di murare la sua bara all’interno della villa. Passò gli ultimi anni della sua vita in assoluta ma dignitosa solitudine, rotta solo da frequenti lettere d’amicizia con Garibaldi e dall’aiuto a lui stesso prestato nel 1867, quando lo supportò nella rocambolesca e temporanea fuga da Caprera aiutandolo nella breve traversata del braccio di mare e ospitandolo proprio a casa Collins per una notte. Morì nel 1868 e venne sepolta nel piccolo cimitero del paese. Le spoglie del marito la raggiungeranno dopo diversi anni, quando lo Stato si riappropriò di terreni e villa, traslandole nella tomba della moglie.
Da allora la casa è stata abbandonata a sé stessa, circondata da ben poco gloriosi mezzi pesanti, rifiuti urbani e un’isola ecologica. L’interno è chiuso e inaccessibile, verosimilmente svuotato dalla “biblioteca molto ben fornita e un caminetto per l’inverno” che a quanto pare custodiva. Gli unici ambienti esplorabili, piccoli ma sufficienti a farci respirare un’atmosfera di profonda decadenza, sono la cantina e un magazzino esterno. Probabilmente villa Collins è stata riutilizzata negli anni successivi, data la presenza di alcuni elementi più moderni e tracce di alimentazione elettrica.
Gli ultimi anni di Emma Collins hanno alimentato fantasie e dicerie mai realmente accertate, comunque “ufficializzate” da un articolo pubblicato sul New York Times nel 1908 da un amico intimo di Garibaldi, Achile Fazzari, che parlava della vedova come di una vera e propria “amante”, una relazione inizialmente platonica poi palesatasi dopo la scomparsa del marito, senza tuttavia fornire troppi dettagli. “Io ho visto le numerose lettere che ella scrisse all’eroe. Datano dal 1860 e continuano per alcuni anni […] Lasciamo questa storia nel suo mistero. Io non so perché ho sollevato un angolo del velo”.
Non esattamente giornalismo d’assalto, dunque, un dire e non dire che lascia la questione aperta più a ulteriori interrogativi che risposte, fili sparsi su cui la stampa dell’epoca ha ampiamente ricamato. Le investigazioni giallorosa proseguono con l’analisi di biglietti e lettere sia ereditate da Fanny, nipote della Collins, sia custodite negli archivi del Vittoriano, a Roma, a cui non abbiamo accesso. Missive riferite come “affettuose” e “confidenziali”, come però era di norma nei dialoghi tra gentiluomini e gentildonne dell’epoca.
Come gran parte delle vicende umane, anche questa storia viene inghiottita dagli abissi del Tempo. Non sapremo mai se e cosa ci sia davvero stato tra i due, personalità vicine ma allo stesso tempo estremamente distanti. Preferiamo rimanere nel dubbio e non cadere nel facile sensazionalismo, anche se è inevitabile ammettere una certa suggestione, sostenuta dal fatto che casa Collins e casa Garibaldi, separate da un mare più o meno metaforico, siano visibili dalle rispettive finestre e continuano ancora oggi a guardarsi tra loro.
Dove si trova: sulla collina sovrastante il Passo della Moneta, all’estremità sud-est dell’isola di La Maddalena (SS). Google Maps.TRIPinVIEW.